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EROS E THANATOS
“Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pur che si trattasse di un solo caso per campione, che fosse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con tutte le sue prodighe ventiquattr’ore, fra diurne e notturne, mattutine e vespertine, senza che fosse intervenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato.”
Con “Le intermittenze della morte” Saramago realizza un arguto apologo, tra il romantico, il surreale e il grottesco, del rapporto tra eros e thanatos. Qui la morte è rappresentata come nella tradizionale iconografia medioevale, uno scheletro con tanto di falce e cappuccio (anche se poi usa la corrispondenza vergata a mano per recapitare ai morituri le sue fatali sentenze e la televisione di Stato per rendere pubblici i suoi messaggi), una forza potente a cui non è possibile far resistenza (ma che sbriga il suo millenario lavoro come un qualsiasi travet d’ufficio), la quale morte decide un giorno di travestirsi da giovane donna per avvicinare l’unico essere umano, un violoncellista cinquantenne che vive solo con il suo cane, che inconsapevolmente rifiuta di morire quando è giunta la sua ora. Entrata nella sfera privata della sua vittima, peraltro abbastanza grigia e routinaria (come del resto quella di quasi tutti gli “eroi” saramaghiani, esemplari di una solitudine feroce sopportata con estrema dignità e decoro), per la prima volta rimane coinvolta, complice anche la musica di Bach, dalle emozioni dell’umanità e, da fredda dispensatrice dell’estremo viatico qual era, decide di bruciare la ferale missiva e di rimanere al fianco dell’uomo nelle sue femminee fattezze (un po’ come accadeva agli angeli de “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders).
Il romanzo, che inizia e si conclude con un’identica frase (“Il giorno seguente non morì nessuno”), è scorrevole e divertente, ma sconta il peccato di far entrare in scena i suoi personaggi principali dopo ben più di cento pagine. Prima infatti Saramago si esercita a simulare gli effetti (politici, economici, sociali, psicologici e perfino religiosi) di un’ipotesi assurda: la scomparsa della morte in un Paese immaginario. Quella che sembra un’ipotesi da paradiso terrestre si rivela, nell’implacabile logica dello scrittore portoghese, una sciagura di proporzioni inimmaginabili. Se la Chiesa ha bisogno della morte, perché senza la resurrezione e l’aldilà la sua presenza diventa superflua, il Governo da parte sua si preoccupa del pagamento delle pensioni e dell’inevitabile incremento demografico, gli ospedali dell’impossibilità di garantire le cure mediche a una pletora di malati terminali destinati a non perire mai, le imprese di pompe funebri del chiudersi dei rubinetti che portavano loro profitti apparentemente a prova di qualsiasi crisi e recessione economica, e così via. Con il suo inconfondibile humour, Saramago immagina come l’umanità riesca a reagire con opportunismo, praticità e un pizzico di cinismo anche a questa situazione d’emergenza: le compagnie di assicurazione modificano le clausole delle polizze vita inventando la “morte virtuale” a 80 anni, la mafia si getta a capofitto in un nuovo business, l’organizzazione del trasporto a pagamento dei moribondi al di là dei confini nazionali (dove si continua a morire regolarmente), lo Stato chiude un occhio su questi traffici e anzi (dal momento che gli toglie non poche castagne dal fuoco) fornisce alla mafia anche una sorta di supporto logistico. Tutto questo è descritto in maniera estremamente abile e ingegnosa (del resto Saramago è il re dei paradossi, di cui è disseminata l’intera sua letteratura), ma anche un po’ distante, come se la vicenda fosse vista con gli occhi di uno scienziato che stesse conducendo un esperimento in laboratorio. E’ solo quando viene ristabilito il naturale ordine delle cose, vale a dire quando la gente torna a morire come prima (con la sola variante che la morte consegna una settimana prima ai predestinati una lettera viola che annuncia loro l’imminente dipartita), ed entra in scena il violoncellista restio a morire, che il racconto acquista – per così dire – anima e corpo, mettendo da parte l’umanità nel suo complesso per scendere al livello – come è maggiormente nelle corde del nostro autore – delle singole esistenze individuali (umane e non, vedi la bella figura del cane che riecheggia quella del suo simile de “La caverna”). Ma ormai, come già accennato, sono già trascorsi i due terzi del libro e, nonostante l’intensità delle pagine finali, non è più possibile togliersi di dosso l’impressione che “Le intermittenze della morte” sia più che altro un esercizio di stile, una prova tutto sommato minore nella ragguardevole bibliografia saramaghiana.
Commenti
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Ps: vero, quel brano di Chopin non rimane impresso ma rende l'idea del libro per la sua breve vivacità.
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