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LA VERITA' E' SEGRETA
“C’è qualcosa di affascinante in ciò che la sofferenza morale può fare a una persona che, nella maniera più evidente, non è debole o irresoluta. E’ ancora più insidioso di quello che può fare un malanno fisico, perché non c’è iniezione di morfina, anestesia spinale o radicale intervento chirurgico capace di alleviarla. Una volta che sei nella sua morsa, è come se, per liberartene, le dovessi permettere di ucciderti. Il suo crudo realismo non assomiglia a nessun’altra cosa.”
“Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.”
Dopo “Pastorale americana” l’alter ego di Philip Roth, Nathan Zuckerman, ritorna in un romanzo per molti versi simile, che non a caso chiude idealmente la trilogia sulla storia americana contemporanea comprendente anche “Ho sposato un comunista”. Ne “La macchia umana” Roth-Zuckerman si dedica a rievocare la vicenda umana del professor Coleman Silk, mettendo ancora una volta in evidenza come l’immagine pubblica di un uomo ben raramente corrisponde alla sua più autentica, intima e segreta verità, inaccessibile agli occhi degli altri (attenti solo a captare in maniera superficiale e necessariamente erronea i segnali “sociali” che provengono dall’individuo); inaccessibile agli occhi degli altri, ma non a quelli della letteratura più illuminata, la quale per Roth assurge a un ruolo quasi medianico (è emblematica la scena notturna di Zuckerman al cimitero dove è sepolto Coleman) di tramite per ristabilire la corretta e il più possibile oggettiva versione delle vicende umane (lo scrittore in questo senso sarebbe una sorta di storico delle esistenze individuali). Non è un caso che ho parlato di “segreta verità”, perché il protagonista (come già lo Svedese di “Pastorale americana”) si porta addosso da decenni un segreto pesantissimo, che lo ha tagliato radicalmente fuori dalle proprie origini, dalle proprie tradizioni e dalla propria famiglia: da quando ha deciso, lui nato di colore ma dalla pelle insolitamente chiara, di passare “dall’altra parte” e diventare un bianco, senza che nessuno, neppure sua moglie e i suoi figli, lo sappiano, Coleman Silk vive con una sorta di doppia identità, quasi un novello Mattia Pascal che non per caso, ma con lucida e volontaria determinazione (per poter avere, in una rivendicazione di orgoglioso e sfrenato individualismo, tutte le opportunità in grado di portarlo al successo che un “semplice negro” nei primi anni ‘50 in America non poteva ancora permettersi), sceglie di cancellare completamente il passato per costruirsi senza condizionamenti il proprio futuro.
La parabola umana di Coleman Silk è venata di una beffarda ironia, in quanto il professore, al culmine del suo successo professionale, subisce un’infamante (e ingiusta) accusa di razzismo, avendo apostrofato come “spettri” (che nell’inglese gergale è anche un modo spregiativo di dire “negri”) due studenti assenteisti che non conosceva e che, casualmente, erano di colore. Tale accusa, e l’inchiesta interna che viene sollecitamente aperta, costringe Silk a dimettersi dall’università in cui lavora e a esiliarsi polemicamente dal mondo accademico in cui aveva vissuto e mietuto allori per decenni. Crudele nemesi del destino per chi aveva abiurato la sua razza in un’epoca in cui mai uno studente nero avrebbe potuto far valere i propri diritti contro le discriminazioni (vere, figuriamoci quelle pretestuosamente infondate) di un professore bianco, e tanto più crudele e beffarda in quanto viene a sconvolgere e ribaltare l’audace e spregiudicato progetto di vita che Coleman Silk aveva con tanto scrupoloso raziocinio messo in piedi. Pochi romanzi come “La macchia umana” hanno descritto in maniera così stringente e incisiva l’incontrollabile imprevedibilità del destino, che irride gli sforzi degli uomini (soprattutto in America, la patria del self made man, dove il diritto alla felicità individuale e all’autorealizzazione è perfino rivelato dal modo di scrivere il primo pronome singolare con la lettera maiuscola) di forgiarsi autonomamente, in spregio ad ogni condizionamento di censo, razza e religione, la propria esistenza.
“La macchia umana” è anche un potente romanzo di critica sociale, che mette alla berlina tutta l’ipocrisia, il perbenismo e il bigottismo di cui è permeata la società americana, e che si manifesta periodicamente in vere e proprie epidemie di maldicenza capaci di annientare, per biechi e ottusi motivi ammantati dalla falsa esigenza di salvaguardare la morale pubblica, la dignità di una persona. Non è un caso che la storia di Coleman Silk venga collegata a quella, per molti versi analoga, dello scandalo a sfondo sessuale che ha portato il presidente americano Clinton a un passo dalla destituzione. Il messaggio “politico” di Roth è chiaro, e va contro quell’odioso puritanesimo che fa sì che magari si perdoni a un presidente una guerra crudele e sanguinosa (e nel 2000 non c’erano ancora stati i conflitti con l’Afghanistan e l’Iraq dell’era Bush!) ma non una banalissima relazione extra-coniugale. I suoi strali sono tutti per Delphine Roux, la giovane e brillante insegnante che si sente investita della maniacale missione di punire Coleman Silk per tutti i peccati che la sua paranoica immaginazione di novella Giovanna d’Arco è disposta ad attribuirgli (salvo poi usare cinicamente la sua morte per salvarsi la poltrona), e per tutti quei “gretti frequentatori della chiesa locale, attaccati alle convenienze, retrogradi di ogni genere ansiosi di smascherare e punire le persone” che infestano il mondo come una pestilenza. E’ però ingiusto ridurre il romanzo di Roth a un’invettiva, tanto equilibrato e controllato è il suo stile, rispettosissimo nell’assumere il punto di vista psicologico di ciascun personaggio, sia esso proletario o borghese, erudito o analfabeta, senza mai sbilanciarsi in giudizi morali netti e trancianti. Allo scrittore interessa solo la verità, e la verità non risiede mai nel demonizzare i “cattivi” (Les e Delphine sono in fondo solo degli infelici, dei frustrati, dei poveri diavoli, pericolosi sì – e anche assassini, come nel caso del primo - ma non due mostri, soprattutto non in grado di comprendere tutto il male che stanno facendo), perché altrimenti si ricadrebbe in un manicheismo altrettanto deteriore di quello che si vorrebbe combattere. «Ogni giorno che passa le parole che sento pronunciare mi sembrano una descrizione sempre meno convincente di come stanno realmente le cose», afferma Ernestine, la sorella di Coleman, alla fine del romanzo. Ecco, questa è la vera missione dell’intellettuale, quella di “lavorare” le parole per farle finalmente aderire alla realtà, in un’instancabile sforzo di palingenesi e di rigenerazione, perché le parole possono fare male e distruggere vite umane non meno delle armi, e insegnare a usarle con umiltà, esattezza e discernimento è il solo modo per fare un po’ di luce su quell’immenso e insondabile mistero che è l’essere umano.
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E' da un po' che tengo d'occhio questo titolo. Ora, la tua bella recensione è un ulteriore incoraggiamento a leggerlo.
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