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TUTTO E' COLLEGATO
“La civiltà non era nata e fiorita tra uomini che scolpivano scene di caccia su portali di bronzo e parlavano di filosofia sotto le stelle, mentre l’immondizia non era che un fetido derivato, spazzato via e dimenticato. No, era stata la spazzatura a svilupparsi per prima, spingendo la gente a costruire una civiltà per reazione, per autodifesa. Eravamo stati costretti a trovare il modo di liberarci dei nostri rifiuti, di usare quello che non potevamo gettare, di riciclare quello che non potevamo usare. La spazzatura aveva reagito alla spinta crescendo ed espandendosi. E così ci aveva costretti a sviluppare la logica e il rigore che avrebbero condotto all’analisi sistematica della realtà, alla scienza, all’arte, alla musica e alla matematica.”
Cosa c’entra la spazzatura con la bomba atomica? E Lenny Bruce con Edgar J. Hoover? E un killer seriale che sceglie le sue vittime sulle autostrade del Texas con John Fitzgerald Kennedy? E il successo di una artista d’avanguardia con la scomparsa di un padre di famiglia o la storia di un ragazzo che dipinge graffiti sui vagoni della metropolitana? Apparentemente niente, si sarebbe tentati di dire. Ma in un mondo in cui “tout se tient”, De Lillo si erge ad artefice di un’opera titanica: quella di descrivere la storia americana del XX secolo attraverso l’accostamento di decine di micro-storie apparentemente slegate le une dalle altre, ma che in realtà risultano essere, nell’ambizioso piano dello scrittore, altrettante tessere di un puzzle gigantesco, la cui immagine complessiva vuole essere nientemeno che quella, poliedrica e composita, dell’America del secondo dopoguerra. “Perché alla fine tutto è collegato”, afferma Matt, uno dei tanti personaggi del libro a pag. 496. E Edgar J. Hoover, a pag. 615, gli fa eco con parole quasi identiche. Se “tutto è collegato”, la chiave di lettura di “Underworld” è allora quella di rintracciare i leit motiv, a partire da quello della palla da baseball che, dallo stadio dove si disputa la memorabile finale tra Giants e Dodgers, passa di mano in mano nel corso degli anni, per arrivare infine in possesso di Nick Shay, che la conserva come un simbolo tangibile del fallimento e della sconfitta, l’ambigua ipostasi di un’infanzia difficile e anche di un quartiere, il Bronx (raccontato in pagine di straordinario fascino evocativo, che tradiscono l’origine italo-americana dell’autore), a cui si è indissolubilmente legati da un equivoco rapporto di odio-amore, e che non lascia altra scelta se non rimanervi pervicacemente attaccati come un mollusco a uno scoglio per cercare di sopravvivere ai propri ricordi (come fa Albert Bronzini, con masochistica fedeltà alle proprie tradizioni) o fuggire invece verso altri lidi per inseguire un successo altrimenti impossibile (Nick, Klara) o semplicemente per liberarsi dal fardello del proprio insopportabile presente (il padre di Nick).
Ho detto della palla da baseball, il McGuffin di cui si serve De Lillo per scorrazzare avanti e indietro attraverso i decenni, del Bronx, vero cuore pulsante del romanzo, e di Nick Shay, non a caso l’unico personaggio a parlare in prima persona. Partendo da questi capisaldi e usando il procedimento della ramificazione o del domino, De Lillo introduce una dozzina di personaggi, alcuni reali (Hoover, Bruce, Sinatra), i più immaginari, seguendoli a ritroso nel tempo (questa è una delle più notevoli invenzioni del romanzo, dal momento che personaggi e avvenimenti acquistano senso solo retrospettivamente, man mano che si risale al contrario la corrente degli anni) e divertendosi a far intrecciare le loro traiettorie esistenziali. E’ così che ad esempio, nella seconda parte (“Elegia per sola mano sinistra”), da Marian, la moglie di Nick, si passa a Brian, suo collega, quindi a Marvin, il possessore della palla, e via via, successivamente, allo stesso Nick, a suo fratello Matt, ad Albert Bronzini (insegnante di Matt in pensione) e a suor Edgar (insegnante di religione nella stessa scuola). E i personaggi che non sono collegati direttamente, vengono da De Lillo associati per mezzo di una sofisticata tecnica di riferimenti pseudo-storici o culturali (ad esempio, la nave cisterna che trasporta da anni un carico misterioso di cui si favoleggia nell’ambiente di lavoro di Nick è la stessa che casualmente vede Marvin al porto mentre attende invano lo sbarco del presunto possessore della palla, l’aereo che Klara Sax sta dipingendo è lo stesso bombardiere in viaggio verso la Corea su cui vola il figlio dell’uomo che molti anni prima ha acquistato la palla, il quale a sua volta è l’autore della pubblicità del succo d’arancia sul cui cartellone appare miracolosamente il viso di una ragazzina morta davanti agli occhi di una folla di curiosi, tra cui c’è anche Ismael, l’ex Moonman graffitaro dei treni, e via così, in un gioco di continui, affascinanti e complessi rimandi intertestuali). Su tutto si stende l’ombra della guerra fredda (la partita tra Giants e Dodgers coincide con il primo esperimento atomico dei sovietici), della corsa agli armamenti (gli esperimenti segreti cui collabora il giovane laureato Matt e le dicerie sui tremendi effetti delle radiazioni sulla popolazione locale) e della paranoia (ben rappresentata dal “moriremo tutti quanti” di Lenny Bruce, ma anche dalle farneticazioni di un predicatore da strada che legge la fine del mondo nei simboli massonici presenti nei dollari americani o di Marvin, il quale avanza inquietanti sospetti sulla natura della macchia sulla testa di Gorbaciov o sulla reale esistenza della Groenlandia). Col passare degli anni la guerra fredda lascia il posto a un clima non meno inquietante, dominato dal potere pervasivo delle immagini (l’assassinio di Kennedy proiettato su una moltitudine di schermi televisivi, così come le imprese omicide del Texas Highway Killer) e soprattutto dall’avvento dell’era della spazzatura, delle scorie radioattive e dei rifiuti tossici, il quale chiude il cerchio con una simmetria impressionante (il viaggio di Nick nel Kazakistan, dove i russi distruggono con esplosioni atomiche le sostanze radioattive provenienti da tutto il globo: l’atomica diventata un business come gli altri!) e sancisce il passaggio dal “trionfo della morte” scampata al trionfo del capitalismo globale.
In uno dei capitoli iniziali del romanzo, Nick Shay e due suoi amici sono a Los Angeles per assistere a una partita di baseball seduti dietro al vetro di un ristorante interno allo stadio, e uno dei due si lamenta di non riuscire a sentire il rumore della folla, e quindi di vivere quell’esperienza in maniera asettica, quasi virtuale. Ecco, De Lillo in “Underworld”, da narratore di razza qual è (un narratore postmodernista, certamente, ma anche, per certi versi, ottocentesco, tolstojano, e comunque ben distante dal minimalismo così di moda in questi anni), vuole farci sempre avvertire la presenza della folla, e attraverso di essa lo spirito stesso della Storia (“sono i desideri su vasta scala a fare la storia”): anche se i personaggi che possono essere definiti principali sono all’incirca una dozzina, tutto intorno a loro, all’interno della vasta mole del libro, si agita un’intera umanità con i suoi sogni, le sue ossessioni, le sue paure, le sue miserie, le sue vittorie e le sue sconfitte, umanità simboleggiata dagli spettatori dell’evento sportivo posto in apertura (così come dagli altri avvenimenti “pubblici” tratteggiati più avanti, come la repressione delle proteste antirazziali negli anni cinquanta o la contestazione giovanile degli anni sessanta), e che funziona in qualche modo come il coro in una tragedia greca, sempre presente anche quando sta in silenzio, dietro le quinte.
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Commenti
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Al momento, non l'ho letta per la mole del libro, anche se non ritengo ciò un difetto, anzi. E' che De Lillo è un autore non sempre facile e spesso inquietante, quindi occorre programmare un certo lasso di tempo in una lettura anche emotivamente impegnativa.
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