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PORTARE IL FUOCO, AD OGNI COSTO
C’è una sequenza molto bella di un vecchio film di Andrei Tarkovskij, “L’infanzia di Ivan”, che mi fa pensare all’universo descritto da Cormac McCarthy ne “La strada”. E’ quella in cui il piccolo protagonista sogna, in un tripudio di immagini di beatitudine e di serenità infantile, la figura della madre, bella e sorridente, ma, proprio nel momento in cui sta per afferrare una stella in fondo a un pozzo, viene improvvisamente svegliato dagli atroci rumori della guerra, e dalle serene immagini oniriche viene brutalmente catapultato in un paesaggio devastato e sconvolto. E’ probabile che in un modo altrettanto traumatico si siano svegliati spesso i due protagonisti del romanzo di McCarthy, un padre e un figlio senza nome, di ritorno da sogni ingannevolmente seducenti per riaffacciarsi in un mondo freddo, scheletrico e ostile, distrutto anni prima da una misteriosa catastrofe (una esplosione nucleare?) e ridotto a una arida distesa di cenere, di rovine e di cadaveri, in cui tutto (il cielo, il sole, il mare, la neve) è grigio e incolore, e lo stesso Dio, pregato, invocato o maledetto, latita al pari degli esseri umani. In questo scenario apocalittico, che non si può immaginare se non in uno sporco bianco e nero, la coppia si sposta incessantemente, raramente concedendosi un po’ di riposo, spingendo attraverso le interminabili strade che portano verso sud e verso il mare (quelle highways viste in tanti road movies americani, laddove erano simboli di libertà e di spazi aperti, mentre qui sono piuttosto l’immagine di un destino che si è condannati a seguire pur senza intravederne il significato e lo scopo) un carrello contenente le poche cose rimaste loro (alcune coperte, un po’ di benzina, qualche attrezzo, un accendino e una pistola con due soli proiettili nel caricatore), alla disperata ricerca di calore e di cibo, e in impari lotta contro le avversità della natura e le insidie dei feroci predoni disposti a tutto, anche al cannibalismo, pur di sopravvivere. L’uomo e il bambino non hanno né identità né passato (solo qualche sporadico e poco esplicativo ricordo si affaccia alla mente del primo), e parimenti viene difficile immaginare per loro un futuro plausibile, eppure i due si muovono stoicamente, senza mai arrendersi alla fatica, alle difficoltà, alle malattie e alla sfortuna, pur di non spegnere quella flebile speranza rappresentata dalla loro fragile e precaria esistenza. “Noi portiamo il fuoco” dice spesso il padre al figlio per motivare quel viaggio insensato, ed il fuoco di cui parla è, metaforicamente, quel patrimonio di umanità che, nonostante la spietata lotta per la sopravvivenza, alberga ancora in loro, soprattutto nel bambino. La pietas dimostrata da quest’ultimo negli incontri con l’uomo bruciato dal fulmine, con il bambino intravisto nella città e soprattutto con il vecchio, al quale cedono contro il loro interesse una parte delle loro preziose cibarie, dimostra con commovente intensità che più importante di ogni cosa è conservare dentro di sé un residuo di senso morale, senza il quale viene meno la spinta e il desiderio stesso di rimanere al mondo. Il fuoco quindi altro non è che il bambino stesso, prezioso residuo di giovinezza in un mondo mummificato, che il padre difende e custodisce con tutte le energie e che porta eroicamente in fondo al suo cammino umano, consegnandolo come un emblematico testimone a una piccola comunità di sopravvissuti “buoni” disposti a continuare a lottare giorno per giorno per dare un senso alla vita.
“La strada” è un romanzo bellissimo, impregnato com’è di una dostojevskijana ricerca di imperativi morali all’agire degli uomini, un romanzo metafisico pur senza essere dichiaratamente religioso (aleggia sotterraneamente nelle sue pagine la domanda “perché Dio ha permesso tutto questo?”), un romanzo profetico in cui ogni frase si configura come un segno destinato a riecheggiare per secoli. Il linguaggio spoglio e secco di McCarthy, fatto di poche parole e molti, lunghi silenzi, brevi domande a cui seguono sintetiche e icastiche risposte, è di una densità impressionante. Sembra quasi che lo scrittore americano abbia lasciato prosciugare, disseccare le sue frasi per distillarne solo l’essenziale, senza una sola riga superflua, senza un solo vocabolo fuori posto, con ciò adattandolo miracolosamente all’apocalittico scenario descritto. Pur non intervenendo mai come “autore”, cioè non andando mai al di là degli scarni dialoghi e della oggettiva registrazione di ciò che fanno e vedono i personaggi, McCarthy è riuscito a mettere in scena una lucidissima riflessione sull’inevitabilità del male e sull’altrettanto evidente necessità del bene e la più potente metafora della vita che mai mi sia stato dato di leggere in uno scrittore contemporaneo, in una visione del mondo che, se pure è manichea, trasuda un’autentica fede nell’uomo e possiede la forza etica e la carica pedagogica dei più ispirati profeti.
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Complimenti e buone letture
Riconosco che si tratta di un libro bello letterariamente, però non è il mio genere di romanzo. Ho pensato che la scrittura dell'autore non sia nelle mie corde; infatti non l'ho più ripreso.
Questa estate ho fatto una scorpacciata di libri americani, per cui penso a quanto sia bella e colta e intelligente la cara vecchia Europa!
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