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Leyla, la donna di Istanbul
«Una volta sua madre le aveva raccontato che l’infanzia era una grande onda azzurra che ti solleva, ti spinge avanti e poi, proprio quando pensi che durerà per sempre, sparisce, e tu non puoi rincorrerla né riportarla indietro. Ma prima di sparire, l’onda ti lascia un ricordo, una conchiglia di strombo sulla riva, dentro cui si conservano i suoi dell’infanzia. E ancora oggi, se chiudeva gli occhi e ascoltava attentamente, Jamilia riusciva a sentirli…»
Il suo nome è Leyla Afife Kamile, è nata il 6 gennaio 1947 e il suo nominativo è stato scelto affinché lei, la bambina nata in una famiglia con un marito e due mogli e strappata al grembo materno ingiustamente, potesse fregiarsi di fierezza, grandiosità e inequivocabilità in quella innata impeccabilità purezza, castità e perfezione che indubbiamente l’avrebbero contraddistinta. Ma Leyla è sempre stata l’emblema dell’imperfezione. Ha sbagliato, è caduta, ha solcato strade di disapprovazione, si è risvegliata prostituta. Tutti la conoscono come Leyla “Tequila “per la sua innata capacità di ingoiare le amarezze della vita quasi come se fossero shottini da buttar giù uno dopo l’altro e cinque sono le anime con cui lei si sente in simbiosi e con cui si raffronta, alla disperata ricerca di quella comprensione, di quel luogo chiamato casa. Anche adesso che, in quella sera del 29 novembre 1990 è morta e il telegiornale ha annunciato, in una striscia giallo acceso al termine delle notizie, che una prostituta era stata trovata uccisa in un cassonetto: la quarta in un mese. “Panico tra le lucciole di Istanbul”, ella non si rassegna.
«Solo perché qui ti senti al sicuro non significa che sia il posto giusto per te, ribatté il cuore. A volte dove ti senti più sicuro è dove ti sei meno di casa»
Ma perché Leyla è morta? Cosa le è accaduto? Perché da adolescente piena di sogni si è risvegliata nell’universo distorto di un bordello in cui non vi è spazio per la speranza, per il futuro? E cosa accade davvero quando il nostro cuore cessa di battere? L’attività cerebrale si interrompe immediatamente o persiste ancora per svariati minuti a ricordare, a essere viva?
Dieci minuti e trentotto secondi. Questo è il tempo che Leyla, che ha rinunciato alla “i” di “infinity” per quella spregiudicata y, ancora riesce ad assaporare dopo che la sua dipartita è sopraggiunta. Dieci minuti e trentotto secondi in cui rievoca ricordi, vissuto, storie. Storie di vite personali, storie di anime dimenticate, lasciate a sé stesse. E così Leyla rivive. Rivive gli anni di un’infanzia fatta di menzogna, rivive i ricordi dell’amore che l’ha sfiorata e poi abbandonata, rivive i giorni dell’arrivo a Istanbul, città di promesse e illusioni che l’accoglie povera e priva di un soldo e che la rende la perfetta preda di uomini disposti a tutto pur di lucrare sulla sua pelle.
Ogni capitolo è dedicato a un minuto della vita della protagonista ideata da Elif Shafak, episodi in cui oltre che a ricordare il suo tempo l’autrice affronta tante intrinseche tematiche appartenenti al quel mondo medio-orientale che ancora oggi è tutto da scoprire. Ad avvalorare ulteriormente il palcoscenico, tra tutti, un luogo davvero significativo: il Cimitero degli Abbandonati di Kylos, luogo davvero esistente e meta in cui vengono raccolti tutti i dimenticati, tutti coloro che non rientrano nei confini precostituiti della società. Al tutto si somma una penna affascinante che cattura e conduce il lettore conquistandolo senza difficoltà. La prima parte del volume si concentra in particolare sulla vita dell’eroina sino al suo drammatico epilogo per lasciar posto, nella seconda e terza parte a voci che tra loro si intersecano per ricomporre anche quegli ultimi tasselli mancanti alla ricostruzione del quadro.
L’elaborato si presenta quindi caratterizzato da una trama originale e fortemente introspettiva a cui si somma uno stile narrativo accurato e fin troppo minuzioso, tuttavia, pian piano nel proseguire delle vicende, la lettura perde di intensità, la scrittura stessa risulta talvolta essere lenta e farraginosa tanto da rischiare di disincentivare dall’andare avanti. A ciò si aggiungono delle inesattezze formali che lasciano un po’ perplessi e che ahimé colpiscono anche il conoscitore meno esperto di questa cultura.
In conclusione, un buon libro, da leggere e da conoscere ma che non riesce totalmente a soddisfare le aspettative di chi legge.
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