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LA GUERRA DELLA GENTE COMUNE
“E’ risaputo che l’essere umano è complesso, molteplice, diviso, misterioso, ma ci vogliono le guerre o i grandi rivolgimenti per constatarlo. E’ lo spettacolo più appassionante e terribile […]; il più terribile perché è il più vero: non ci si può illudere di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella bonaccia. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in un periodo come questo può dire di conoscerli – e di conoscere se stesso.”
Irene Nemirowsky è morta – come è risaputo – nel campo di sterminio di Auschwitz nel 1942, e leggendo “Suite francese” quello che più meraviglia il lettore è una sorta di paradosso temporale, il fatto cioè che la guerra mondiale sia stata da lei raccontata praticamente in presa diretta, proprio mentre gli eventi bellici si stavano svolgendo sotto i suoi occhi, eppure il romanzo sembra essere stato scritto, per l’olimpico distacco critico ed emotivo che esibisce, molti anni dopo la fine del conflitto. La Nemirowsky è riuscita a cogliere appieno il significato e il senso storico di avvenimenti che il caos, la complessità e la frammentarietà di un conflitto bellico di solito non consentono. La visione da lei privilegiata è quella della gente comune: quindi nelle pagine di “Suite francese” non assistiamo a battaglie, incursioni aeree o rappresaglie partigiane, bensì al vivere quotidiano di aristocratici, borghesi e contadini, alle prese con la fuga in massa da Parigi alla vigilia dell’invasione nazista (la prima parte, “Temporale di giugno”) e con l’occupazione dell’esercito tedesco (la seconda parte, “Dolce”). Peccato che “Suite francese” sia rimasto fermo ai suoi primi due capitoli, perché l’intero progetto prevedeva ben cinque racconti, tra loro intimamente collegati, i quali, se portati a termine, avrebbero probabilmente costituito la migliore rappresentazione in forma letteraria dell’intero secondo conflitto mondiale. Ma anche così com’è, “Suite francese” è pur sempre un’opera notevole, perché mette in scena una umanità quanto mai variopinta mediante l’utilizzo di un registro emotivo e linguistico estremamente differenziato, che va dalla compassione e dalla pietas verso i personaggi più provati dal destino (ad esempio, i coniugi Michod, la “sposa di guerra” Lucile e la contadina Madeleine) fino all’irrisione beffarda e grottesca nei confronti delle figure più abiette e meschine (la viscontessa di Montmort, la facoltosa signora Pericand, lo scrittore Gabriel Corte, il collezionista Charles Langelet). Il cuore della Nemirowsky batte evidentemente per le persone semplici e umili, ma il tono dei suoi racconti non scade mai, neppure negli episodi di peggior egoismo, opportunismo o vigliaccheria, nell’invettiva o nel disprezzo. Anzi, nel ritrarre i vezzi, i tic, le manie, i formalismi e le manifestazioni (di arroganza, di superbia, di viltà o di paternalismo) tipiche delle classi sociali più elevate, la Nemirowsky rivela un acume e un’ironia addirittura proustiani (la viscontessa di Montmort, ad esempio, ben potrebbe figurare in qualche pagina della “Recherche”). La prosa della Nemirowsky, in ogni caso, rientra nel genere del “feuilleton” e del romanzo “popolare” (nel senso di letteratura che sa parlare alla gente con immediatezza e semplicità, quella semplicità che non è semplicismo ma capacità di nascondere ogni sofisticatezza ed ogni artificio), genere che la giovane scrittrice francese ha saputo portare ad esiti ragguardevoli e al quale ha aggiunto una personale vena lirica e una predilezione per i toni sfumati e malinconici, oltre che un inedito rispetto per coloro che nella maggior parte dei romanzi di guerra sono trattati in maniera alquanto manichea, ossia i nemici, i tedeschi, i quali vengono descritti in “Dolce” con la stessa sensibilità e la stessa equanimità dei personaggi francesi.
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