Dettagli Recensione
A faccia a faccia con la propria identità
Se mi dovessero chiedere di collocare in una categoria definita e conosciuta “Il lupo della steppa” di Hesse mi troverei davvero in difficoltà. Sarei sospeso tra romanzo di formazione e romanzo esistenziale. Al che uno potrebbe confonderli o sovrapporli, invece la lettura che viene fatta per la prima tipologia è diversa da quella che viene fatta per la seconda. E ancora di più il fine, lo scopo.
Il motivo di tale premessa, se ve lo state chiedendo, è presto detto: noi possiamo leggere tale capolavoro, in entrambi i modi. Spetta all’inclinazione del lettore nonché alla sua sensibilità deciderlo.
In questo libro emerge una delle tante abilità che ha reso grande Hesse, premio Nobel del 1946. Riuscire a fondere due stili diversi nello stesso libro e lasciare il potere al lettore di decidere quale privilegiare è un qualcosa di così inusuale che non ho trovato in nessun altro autore. Così come è inusuale e quasi sorprendentemente spaventoso osservare come in alcuni passaggi l’autore abbia fatto riferimento a un’altra guerra mondiale che prevede essere distruttiva e cruenta come non mai. E, se si pensa che dodici anni dopo l’uscita di questo libro scoppiò davvero il secondo conflitto bellico (nel 1939, quando le truppe hitleriane invasero la Polonia) con tutte le conseguenze che noi tristemente conosciamo, allora quelle parole, quei passaggi, quelle descrizioni di sofferenza mista a disperazione hanno davvero un sapore di amara predizione.
Conoscendo la vita dell’autore non riesco a fare a meno di pensare che questo racconto sia stato lo specchio della sua condizione interiore in quel periodo e, allo stesso tempo, possa essere la condizione interiore dell’uomo. Se è così, capite bene quanto possa essere stato difficile il compito di Hesse. E, non a caso, il libro è davvero impegnativo. Richiede una discreta attenzione da parte del lettore perché alla fine comprendere il percorso esistenziale di Harry Haller significa comprendere una parte di se stessi.
Quante volte infatti ci ritroviamo di fronte a condizioni, luoghi, pensieri tramutati in realtà che mai avremmo pensato di poter ascrivere alla nostra vita?
Quando ci fu l’assalto nel gennaio del 2015 alla redazione del settimanale satirico francese (Charlie Hebdo), il giorno dopo non solo Parigi, non solo Roma, ma tutta Europa era commossa, distrutta, lacerata per una tragedia che quasi nessuno pensava possibile e la frase che testimoniava questa condizione era “Sono Charlie” (Je suis Charlie). Ebbene, alla luce di questa lettura, posso dire che “siamo tutti Harry Haller”.
Con le dovute proporzioni ovviamente, perché le sue problematiche, il suo dissidio è spinto fino a uno stadio estremo, quello della rassegnazione, disperazione e sopraffazione. Solo quando era a un passo dal baratro è arrivata una mano tesa in suo aiuto. Ma tutti noi, esattamente come Harry, abbiamo provato almeno una volta la sensazione di esserci trovarti in un posto a noi non congeniale. Il dramma era che per Harry era la vita stessa a non essere congeniale. Odiava lo spirito borghese, ma lui stesso era un borghese. Odiava il suo modo di essere, ma anche dentro il suo modo di essere c’era un anima pura, candida. Più il racconto si diradava, più Hesse ci faceva comprendere che per il nostro sventurato amico non sembrava esserci via d’uscita. Vane speranze, vuoti silenzi, illogicità delle proprie azioni... nulla sembra essere positivo, nulla sembrava essere salvabile. Ma, in realtà, c’era solo quella parte di lui così buona e genuina che, se stimolata, aveva il fiato sufficiente e la forza necessaria per riscattare l’intero “io” del protagonista. Lui era un pacifista e forse temeva una guerra proprio perché sapeva, interiormente (nel senso letterale del termine), quanto fossero difficili e traumatiche le conseguenze. In lui infuriava un conflitto identitario, tra la parte più asociale e selvatica (il lupo) e quella più umana e socievole (l’uomo appunto), così devastante che non poteva porre fine da solo. Non perché non ne era in grado, ma perché non ne aveva piena coscienza. Solo quando si è imbattuto -in circostanze davvero poco chiare che, sinceramente, stonano un po’ con l’intera trama esistenziale- nel pamphlet “Dissertazioni sul Lupo della Steppa” comprende le contraddizioni che abitano il suo essere, le quali però gli sembrano insormontabili ...
È un libro che va letto e assaporato con concentrazione perché tutti noi ci ritroviamo in quel personaggio, in quel tale Haller il cui senso psicologico e interiore è letteralmente dipinto dalle parole scaturite dalla penna di Hermann Hesse. Dimenticatevi Siddhartha, cancellate completamente la storia sublime e mistica di Narciso e Boccadoro, “il Lupo della Steppa” non ha una trama precisa. È un racconto esistenziale di un uomo problematico. Un racconto in cui tutti noi possiamo imparare qualcosa.
“L’uomo è un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito.” Questo è l’assunto eppure man mano che si procede con la lettura, man mano che si fa la conoscenza con la enigmatica Hermine (la donna che ha sconvolto l’esistenza del nostro protagonista) anche questa certezza sembra sgretolarsi perché, contemporaneamente, inizia a solidificarsi nella mente di Haller la convinzione che l’uomo è molto di più. L’uomo non è solo un ponte stretto fra natura e spirito, ma è anche una transizione di più personalità, di più spiriti, di più nature.
Ecco che allora, come quando si torna bambini (e qui entra in gioco la possibile lettura alternativa, ovvero quella del ‘romanzo di formazione’) e si è “obbligati” ad ascoltare unicamente i propri genitori, affinchè si possano prendere le giuste misure della propria vita, si possa comprendere il mondo cui si appartiene e si possa accettare ciò che prima non era accettabile; come la prima volta in cui si entra in un mare che visto da fuori appariva estraneo e pauroso, ma con l’aiuto di mamma e papà si inizia a famigliarizzare e a renderselo amico, così allo stesso modo, l’immersione nel mondo borghese (il mare) con tutto ciò che comporta da parte di Heller (il bambino), coadiuvato da Hermine (la mamma) ricalca lo stesso procedimento per arrivare allo stesso scopo. Accettare la realtà. E alla fine, anche forzatamente se necessario (leggere per capire), si è chiamati a camminare con le proprie sole gambe nel grande luogo che è la vita, forti degli strumenti ottenuti e della consapevolezza delle innumerevoli sfumature che l’uomo può mettere in campo per abbracciare qualunque cosa gli si pari di fronte, sia essa fisica, sia essa metaforica.
Un libro che fa a pugni con l’impianto canonico del romanzo per andare a braccetto con l’idea di Sartre, il modello esistenziale (e formativo). Solo una cosa mi sento di “rimproverare”: lo stile. Può apparire strano che, dopo aver tessuto le lodi di “Narciso e Boccadoro” da ogni punto di vista, io veda in un premio Nobel come Hesse una complessità stilistica inutile e dannosa in un romanzo già complesso nei contenuti. Hesse è un genio, ma poteva aiutarci e venirci incontro. Non lo ha fatto. Questo può anche essere visto meritoriamente, ossia come un modo per spronare il lettore all’attenzione e all’ingegno. Tuttavia l’ho ritenuto e lo ritengo tuttora eccessivo. E alla fine si è toccato l’apice. Una parte finale, dominata dai forti contorni surreali, simbolici e metaforici, che ho trovato certamente funzionale alla vicenda, ma fuori stile rispetto a tutto il racconto pregresso.
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Commenti
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E hai ragione: H.Hesse è uno scrittore di spessore. Un grande.
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Un bel libro di un grande scrittore.