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ANGOSCE ESISTENZIALI DI UNA FAMIGLIA AMERICANA
Le correzioni che danno il titolo al bel romanzo di Jonathan Franzen sono ironicamente disseminate ovunque: sono le correzioni apportate da Chip alla sceneggiatura cinematografica che egli, un po’ velleitariamente, va scrivendo da anni; le correzioni degli indici della borsa in cui Gary, operatore professionale, investe buona parte dei propri risparmi; le correzioni alle abitudini sessuali di Denise, che un bel giorno scopre inopinatamente di essere lesbica; e soprattutto le correzioni di Enid, la quale, pervicacemente e noncurante dell’inanità dei suoi sforzi, cerca per tutta la vita di indirizzare e dirigere la vita dei suoi tre figli. Franzen guarda ai suoi fragili, stressati, disorientati eppur umanissimi personaggi con una sorta di affettuoso disincanto e, con uno stile estremamente libero e sciolto, non esita a metterli di fronte alle situazioni più disparate, che vanno dalla tragedia shakespeariana (la riabilitazione finale dell’”irresponsabile” Chip agli occhi del padre ricorda alla lontana il “Re Lear” del Bardo) alla farsa (Chip che incontra un amico al supermercato con un salmone infilato nei calzoni), passando per il thriller psicologico (quel fucile che Alfred conserva nel seminterrato per un suicidio che non si realizzerà mai), per il vaudeville (Denise va a letto contemporaneamente con Robin e con Brian, marito della ragazza nonché suo datore di lavoro), per il romanzo avventuroso (la fuga di Chip dalla Lituania) e per il dramma familiare. In mezzo a questa congerie di elementi disomogenei, va dato atto al “cuoco” Franzen (mi si passi la metafora culinaria, in quanto uno dei protagonisti è un famoso chef) di essere riuscito nel difficile intento di non fare “impazzire” la maionese. Infatti a tenere insieme il tutto c’è una serie di fili conduttori i quali toccano temi fondamentali della società contemporanea, quali la vecchiaia, la malattia, il rapporto tra genitori e figli, il dissidio tra responsabilità e libertà o quello tra etica e successo. E’ qui che si vede di che tempra è fatto lo scrittore americano, il quale, con un procedimento minuziosamente analitico e nel contempo potentemente allegorico, fa della famiglia Lambert, con uno spirito provocatorio e iconoclasta, lo specchio, la metafora di un’intera civiltà.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, l’anno in cui si svolgono gli avvenimenti è quello di fine millennio, alla vigilia dello scoppio della “bolla” tecnologica nelle borse mondiali (il quale sta per mettere in discussione, insieme al quasi contemporaneo crollo delle Torri Gemelle, la sicurezza dell’America in una crescita infinita della ricchezza e del tenore di vita e in una totale invulnerabilità da minacce esterne). In questo contesto, Franzen mette inesorabilmente a nudo uno stile di vita senza più freni inibitori ed autentici valori morali. In un mondo in cui tutto deve essere rigorosamente cool, in cui il benessere economico è visto illusoriamente come unica garanzia di felicità, vera e propria religione terrena che ha reso obsoleti e inservibili gli insegnamenti etici della tradizione, in cui il dolore e la malattia sono nascosti e occultati, e in cui la globalizzazione e la diffusione dell’informatica minacciano di portare a una pericolosa confusione su ciò che è vero, attendibile e degno di fiducia e ciò che invece non lo è (la truffa della Lituania.com), gli individui vedono sovvertiti i propri punti di riferimento e perfino la propria individualità. Da qui il desiderio morboso di sfuggire ai connotati di un io debole e disgregato per rifugiarsi nelle insidiose braccia di una scienza che promette la liberazione artificiale da tutte le angosce senza dover far ricorso a doveri, sacrifici e obblighi morali (la droga di Chip, la notizia letta dall’amico Doug sul giornale che è possibile riprogrammare il proprio hardware mentale, la terapia della Axon, le pastiglie prescritte dal medico della nave come ottimizzatori della personalità). Emblematici rappresentanti di questo universo, i cinque componenti della famiglia Lambert si agitano, come grottesche marionette, per sfuggire alla crisi incipiente, ognuno con i propri problemi e le proprie nevrosi: Gary, il figlio maggiore, succube di una moglie che usa spregiudicatamente i figli in una sorta di gioco di potere per la supremazia coniugale, con la sua depressione strisciante, la sua anedonia (ossia la perdita di interesse per le cose che dovrebbero procurare piacere) e la sua insofferenza per il mondo che lo circonda (verso i suoi genitori che hanno bisogno di aiuto e verso cui si sente inconsciamente in colpa, verso le classi subalterne che minacciano col loro cattivo gusto il suo elitario stile di vita, verso l’umanità in genere, così invadente ed opprimente); Chip, l’intellettuale dotato ma votato al fallimento, sempre in fuga dall’assunzione di impegni e responsabilità durature, che soffre della mancanza di punti di riferimento stabili e della precarietà esistenziale in cui versa e che pure irrazionalmente coltiva; Denise, la figlia minore la quale, per sfuggire alle imposizioni familiari, si è messa in situazioni imbarazzanti e indesiderate e che, pur autonoma e benestante, si ritrova senza più niente in mano (senza marito, senza figli, senza lavoro), insoddisfatta e in preda a travolgenti sensi di colpa; il capofamiglia Alfred, in passato padre autoritario e alieno da ogni tenerezza nei confronti di moglie e figli, ed ora tristemente malato di Parkinson, costretto ad assistere al crollo rovinoso del suo fisico e all’inesorabile avanzare di una vecchiaia infernale, fatta di pannoloni, allucinazioni e dipendenza dagli altri per ogni più banale bisogno fisico (quasi una punizione, secondo la legge del contrappasso, per la sua orgogliosa e pervicace indipendenza affettiva e per la sua misantropica difesa dell’intimità); e infine Enid, la classica moglie piccolo-borghese del Midwest, legata a tradizioni e modelli di vita conformistici e stereotipati, la quale ha investito tutta la sua vita sui tre figli, ricavandone però solo delusioni e frustrazioni, alternate irrazionalmente ad accessi di risorgente ottimismo. Il leit-motiv del lunghissimo romanzo (seicento pagine) è l’organizzazione del Natale nella vecchia casa di St. Jude, a cui Enid si dedica con tutte le sue forze per riunire un’ultima volta tutta la famiglia, come se questa ricorrenza potesse essere una miracolosa panacea che risolverà tutti i problemi e restituirà la tranquillità perduta. Il desiderio della donna verrà esaudito, tutti e tre i figli si siederanno infine intorno a un tavolo con i loro anziani genitori, ma le tensioni e i conflitti latenti non potranno fare a meno di deflagrare e di far crollare anche quel precario equilibrio che ancora resisteva. Franzen non intende certo offrire al lettore facili e consolatorie illusioni, ma non è neppure un autore che voglia distruggere per un puro gusto nichilista. Dalle ceneri dell’incendio familiare un nuovo equilibrio verrà faticosamente costruito e, paradossalmente, sarà proprio l’”irresponsabile” Chip a rimboccarsi le maniche e farsi carico della ricostruzione, dalla quale la speranza tornerà faticosamente (e un po’ beffardamente) a riemergere nella forma dell’antiquato, kitsch, eppure inossidabile e inaffondabile ottimismo di Enid.
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Complimenti per la bella recensione!