Dettagli Recensione
Divento niente per diventare scrittore. Scrivo.
«Camminare nel vento è una cosa che non si può fare altro che da soli, perché c’è una tigre e un pianoforte la cui musica uccide gli uccelli, e la paura può essere dissolta solo dal vento, si sa, io è tanto che lo so»
Il suo nome era Tobias Horvath, il suo nome è Sandor Lester. Della sua infanzia non ha memoria o almeno se ne ha certo non ne parla con chiunque. Sua madre si chiamava Esther, era una giovane donna rimasta incinta troppo presto e troppo presto creatasi la nomea di puttana del paese, mendicante, ladra. Di suo padre, ufficialmente conosce della morte, poi scopre che in realtà questi altro non è che l’uomo che sovente si reca nel luogo in cui vive per compiere i gesti dell’amore con la giovane donna. La morte provocata, la fuga, il rifugio, il ricominciare, la fabbrica di orologi, la corsa ogni mattina, il bus, Lei. Tutto si sussegue in una monotona routine di gesti, atti, azioni, ininterrotti, scanditi da un tempo dall’unico e insindacabile ritmo. Il futuro? Line. La donna immaginaria da sempre attesa che da fantasia diventa realtà. O forse no?
«Ormai mi restano poche speranze. Prima cercavo, mi spostavo continuamente. Attendevo qualcosa. Che cosa? Non ne sapevo niente. Ma pensavo che la vita non poteva essere se non quello che era, vale a dire niente. La vita doveva essere qualcosa e aspettavo che questo qualcosa arrivasse, lo cercavo. Ora penso che non c’è niente da aspettare, così resto nella mia stanza, seduto su una sedia, e non faccio niente. Penso che c’è una vita là fuori, ma in quella vita non succede niente. Niente per me. Per gli altri può darsi che accada qualcosa, è possibile, questo non mi interessa più. Io sono qui, seduto su una sedia, a casa mia. Sogno un poco, ma non veramente. Cosa potrei sognare? Sono seduto qui, è tutto. Non posso dire che sto bene, non è per il mio benessere che io resto qui, tutt’altro. Penso che non c’è niente di buono a restare qui, seduto, e che dovrò per forza alzarmi alla fine, più tardi. Provo un vago malessere a restare qui seduto, senza fare niente da ore, o da giorni, non so. Ma non trovo alcuna ragione d’alzarmi per fare una cosa qualsiasi. Non vedo, assolutamente non vedo cosa potrei fare.»
Quella del protagonista è una vita di attesa, un’esistenza squallida in cui i fatti e gli eventi si susseguono senza che lui sia colto da alcun interesse. È un uomo solitario, apatico, un emigrato che aspetta quella figura femminile con quell’ostinazione e quella follia che soltanto a seguito dell’incontro verrà ridimensionata. Perché si può vivere anche senza sogni, anche senza quell’apparente motivazione radicata in una persona che finisce con l’essere il catalizzatore del nostro tutto, anche senza viverla davvero appieno quella vita ma semplicemente accontentandosi del sopravvivere.
Uno scritto breve è “Ieri” di Agota Kristof, un volumetto di appena 94 pagine che si esaurisce in poco più di un’ora ma che ha una capacità narrativa e contenutiva indiscussa tanto che non delude le aspettative soprattutto per chi ha amato ed è rimasto affascinato da “La trilogia della città di K”. Anche in questo caso quegli elementi di profondità, mistero, intensità e confusione propri dell’autrice ci sono tutti, così come quella penna magnetica che imbriglia e trattiene.
Non mancano nemmeno i temi alla stessa cari quali la guerra, l’assenza di una collocazione geografica chiara in uno spazio temporale definito, descrizioni di personaggi lineari con carte di identità riconosciute, la psicologia, la famiglia, i rapporti umani, la condizione economica, la dittatura sovietica, la solitudine, l’introspezione, l’amore, la perdita, la miserabilità.
Tutto è però contornato e condotto da uno stile narrativo prezioso, erudito, duro e morbido, acre e affilato, ricco di emozione, al giusto tempo, concreto e veritiero. Umano.
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