Dettagli Recensione
È triste, sì, quello che vedo
Garnet Montrose è un reduce orribilmente sfigurato in un’operazione militare (“Nell’oscurità e alla flebile luce, qualche volta mi guardo in un catino d’acqua, ed è triste, sì, quello che vedo…”).
Garnet vive in una condizione limite (“A me era stato concesso di vivere ma sotto le sembianze di una creatura venuta dall’altro mondo”) nella casa di proprietà ove – non senza difficoltà per via dell’aspetto ripugnante - ingaggia due assistenti (“Tutto quello che ho sono le lettere, i ragazzi che assumo, e la sala da ballo, e niente di tutto ciò è reale”): il nero Quintus, incaricato di leggergli storie (“La storia di John Brown”) e il fuggiasco Daventry, incaricato di consegnare lettere d’amore (“Avevo cominciato a dettare la mia lettera per la vedova Rance”) alla vedova Georgina Rance.
Ben presto i legami s’intensificano, i ruoli si ribaltano (“Sono rimasto in una vecchia sala da ballo deserta e fatiscente”) e – in un finale spettrale e tempestoso – l’uragano si abbatte sulla Virginia e sui protagonisti di una storia che alterna toni ossianici, capovolgimenti di relazioni, squarci metafisici e visioni.
Giudizio finale: onirico, anticonvenzionale, originale.
Bruno Elpis