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Fragilità
Meni Peleg (Pimstein), stimato consulente finanziario più che cinquantenne ed eroe della guerra dello Yom Kippur, è disarmato di fronte alla morte per cancro dell’amata moglie Nurit (Nurik). Vivere è un qualcosa di impensabile, la perdita è un qualcosa con cui è impossibile far i conti, tanto meno in Israele luogo che è sinonimo di terrore, di guerra, di strascichi di ferite mai guarite. Che altro fare se non lasciare la terra d’origine per rifugiarsi in Sud America alla ricerca di quella quiete e quella pace dell’animo che sembrano essere irraggiungibili per lui?
Dori, trentacinquenne docente di storia, fratello di Ze’ela, e figlio di Meni e Nurit, è sposato con Roni, con cui vive a Gerusalemme insieme al figlioletto di quattro anni, Neta. È un uomo inquieto, ansioso, schiacciato da una moglie al contrario troppo sicura di sé e da cui teme costantemente di essere lasciato. Ossessionato da quello che potrebbe essere il futuro del figlio, e quindi psicologicamente instabile, decide di fare il primo passo e di lasciare lui la coniuge per mettersi alla ricerca di quel padre con cui si è sempre sentito inadeguato, non all’altezza, per cui si è sempre sentito una delusione rispetto a quella sorella di fatto prediletta.
Da qui ha inizio il viaggio oltreoceano del giovane, un peregrinare che è l’occasione per conoscere gli spazi del Nuovo Continente, della natura che è descritta con colori vividi e ricchi, dell’animo e di tutti i suoi tumulti ma anche per conoscere personaggi solo in apparenza secondari (quali Alfredo) che hanno il ruolo di costituire un ponte tra terra natia e Sud America, ma anche tra passato e presente, tra rapporti umani, tra speranze, e per affrontare e rendersi conto di quelle brutture che spesso vengono sottaciute. Tanti incontri e tante riflessioni che porteranno il protagonista principale a rapportarsi con altre figure, con altri israeliani, con altre storie fatte di perdita e di dolore, di rinascita e di fiducia nel domani, di uomini e donne con caratteri positivi e caratteri negativi che sono in bilico su un equilibrio precario ma che non temono di tornare agli anni della Seconda Guerra Mondiale per rivivere, attraverso la solitudine, attraverso il ricordo, attraverso la voce di testimoni (che ricordano a più riprese la nonna di Nevo, Praha Frishberg z’I, a cui il romanzo è dedicato), la Shoah. Il tutto mediante quel filo invisibile che lega le radici delle proprie origini con quello in cui si è trasportati dalle imprevedibilità dell’esistenza, sino all’immancabile ritorno a causa di una telefonata da Israele che non fa altro che annunciare che è Guerra, che il secondo conflitto del Libano dell’estate del 2006 è iniziato con i missili lasciati da Hetzbollah sul nord del Paese. Per ricordarci, ancora, per mostrare ai più fortunati, quel che significa vivere tra quotidianità e deformità, deformità delle ostilità armate.
Tra i più rinomati autori israeliani insieme a Yehoshua, Oz, Grossman, Nevo ci fa destinatari di un’opera che è chiaro emblema di quella generazione disillusa per una pace non raggiunta e per un futuro incerto, fragile e chissà, forse anche privo di solidarietà. Già dal titolo, “Neuland”, “Nuova Terra”, che trae spunto da “Altneulad” di Theodor Herzl, classe 1902, è possibile evincere la profonda complessità del componimento perché tante sono le esistenze, i temi e gli intrecci che sono magistralmente introdotti e affrontati. Si passa dal concetto di radici, alla separazione, alla eradicazione, al rapporto con i genitori, a quello con i fratelli (anche scomparsi prematuramente) e i coniugi, alle fragilità dell’animo umano, alle insicurezze più eterogenee, al desiderio di ricominciare per cogliere il dolore come un’opportunità, alla morte di quei punti saldi che sanno far vacillare con la loro assenza, al viaggio quale modo per ritrovare l’altro ma anche se stesso, per mettersi alla prova, per constatare le proprie certezze, per poi toccare temi quali la storia, la Patria, le persecuzioni, le contese belliche che in questi luoghi sembrano non voler mai cessare, il tempo. Il tempo che una simmetria perfetta tra desideri e realtà, tra aspettative e disincanto.
A una trama solida e ricca di profondi spunti di riflessione, che offre una panoramica esterna e “da lontano” su Israele, si aggiungono pagine intrise di profonda ironia e uno stile narrativo con un doppio ritmo, talvolta lento, introspettivo e anche ripetitivo, talaltra, rapido, scherno, privo di digressioni, diretto.
Un testo corposo, attuale, curioso, che si fa divorare anche se richiede tempo per essere elaborato e che non si dimentica neanche a distanza di tempo dalla prima lettura. Una delle opere più significative di questo novelliere che consiglio, a differenza delle stesure più recenti che onestamente ho trovato sottotono o comunque non all’altezza dei pregressi lavori, a tutti coloro che desiderano avvicinarsi a lui e alle problematiche evidenziate.
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Sempre detto che abitiamo troppo lontano, te li avrei prestati volentieri io i libri di questo filone di autori. Uffa.
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Ecco, gli scrittori israeliani sono ancora una mia grandissima lacuna :(