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L'ALTRA FACCIA DI CUBA
“L’arte è utile solo se è irriverente, tormentata, carica di angoscia e disperazione. Solo un’arte risentita, indecente, violenta, volgare può mostrarci l’altra faccia della realtà, quella che non vediamo mai o che, per evitare fastidi alla nostra coscienza, preferiamo non vedere. Ecco. Altro che pace e tranquillità. Chi dorme sonni tranquilli è troppo vicino a Dio per essere un artista.”
Il protagonista di questo romanzo autobiografico, strutturato in brevi episodi autosufficienti che – come tasselli di un mosaico - compongono alla fine una sorta di inquietante e sordido ritratto di una città e di una umanità in irreversibile degrado (urbanistico, sociale e morale) e perennemente in lotta per non scomparire (anche letteralmente: vedi i vecchi palazzi del Malecon dalla austera facciata ma le cui pareti minacciano di crollare sotto i colpi del prossimo uragano tropicale), il protagonista – dicevo - è un quarantenne disilluso, spiantato e senza fissa dimora, che vive di espedienti e intanto, tra un’avventura di sesso e l’altra (descritte sempre in maniera cruda e triviale, con profusione di riferimenti ai genitali e ai dettagli più prosaici delle copule), registra, crudamente e senza abbellimenti di sorta, una realtà occultata o travisata dalla propaganda del regime. Propaganda che cerca di far credere al mondo che a Cuba tutto funziona benissimo, mentre invece miseria, disperazione, abitazioni fatiscenti e sovraffollate, mercato nero e fughe verso la Florida a bordo di imbarcazioni improvvisate sono il panorama che quotidianamente si dispiega di fronte agli occhi di questo reporter cinico e individualista, quindi immune da tentazioni moralistiche o di protesta politica. La Cuba di Gutierrez è l’altra faccia della medaglia dell’isola caraibica che vediamo nei depliant delle agenzie di viaggio, meta di innumerevoli vacanze turistiche (anche, purtroppo, a sfondo sessuale: e infatti nel romanzo pullulano le prostitute che sognano di potersi comprare vestiti e profumi con i dollari generosamente elargiti da americani ed europei).
L’interesse della “Trilogia sporca dell’Avana” risiede in questa sua valenza sociologica piuttosto che nella sua iconoclastia o nei suoi valori letterari. E’ vero che Gutierrez è un nichilista che sovverte continuamente le regole ufficiali della società in cui vive, ma – ammettiamolo – Céline era di ben altra (e superiore) statura; ed è altresì vero che “se non succedono cose belle intorno a noi è impossibile produrre testi raffinati“, ma il suo periodare breve, la sua sintassi elementare, la sua prosaica ripetitività alla lunga fanno pensare che forse Gutierrez come scrittore sia stato un po’ sopravvalutato. Resta l’innegabile freschezza e sincerità di un libro che a tratti ha l’effetto scioccante di un pugno nello stomaco ed i cui meriti risiedono principalmente nell’avere portato a conoscenza del grande pubblico occidentale una realtà, quella cubana, del tutto ignorata e misconosciuta prima d’allora. Per fare un paragone con la settima arte, la “Trilogia” può essere accostata a un film del 1993 di Tomas Gutierrez Alea e Juan Carlos Tabio, “Fragola e cioccolato”, il quale per primo aveva osato parlare nella Cuba di Castro di omosessualità e di libertà ideologica (e a questo va ascritto principalmente il merito della vittoria dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino di quell’anno), ma che, cinematograficamente parlando, non è nulla più di un’operina originale e dignitosa.
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Oggi, gli aggettivi che fa seguire fanno parte del conformismo di molti scrittori, purtroppo.