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La rassegnazione di fronte alla Legge.
Con “Il castello”, è una delle opere più significative dello scrittore di Praga, uno dei capolavori del primo Novecento pubblicato nel 1925 da Max Brod, contro la volontà dell’autore che voleva distruggere il manoscritto. Sono dieci capitoli, che la Libraria Editrice s.r.l. ha pubblicato nel 2018 in una Collana dedicata ai Classici, aggiungendovi sei capitoli incompiuti. Il lavoro è del 1914/15 e, come noto, è stato ed è oggetto di svariate interpretazioni, tante sono le chiavi di lettura che i critici letterari hanno voluto usare per leggere tra le righe qualcosa che forse Kafka aveva intuito o solo percepito, pur senza esplicitare i veri nodi delle critiche che in cuor suo voleva manifestare nei confronti del sistema giudiziario in primis, dei rapporti umani e della vita più in generale. E’ la storia, sospesa tra realtà e immaginazione, di un impiegato di banca, Joseph K., al quale improvvisamente viene notificato un mandato di arresto per gravi colpe mai chiarite e mai commesse. Il malcapitato si trova coinvolto in un processo assurdo e inesplicabile, si rifiuta di accettare la propria sorte, crede fermamente in un errore giudiziario pur restando invischiato in una ragnatela di situazioni e incontri – scontri con una burocrazia cieca e complessa, popolata da personaggi surreali e sfuggenti. Lo stile narrativo è freddo e disadorno, a tratti delirante e astratto, quasi avulso dalla realtà degli accadimenti. La legge segue il suo corso, inesorabile e complessa: il poveretto alla fine verrà giustiziato, mormorando “Come un cane!” (e fu “ come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”!). Il romanzo, che ebbe una versione cinematografica ed un famoso sceneggiato televisivo nel 1978, si presta a interpretazioni svariate. Oltre alla più comune, vale a dire una critica feroce e scontata contro la “giustizia”, troppe volte caratterizzata da meccanismi imprevedibili e tragici che escludono rapporti di fiducia e che rendono inutile qualsiasi tentativo di difesa, altre possono essere le chiavi di lettura. Vi si può, a mio parere, intuire un latente senso di colpa, aggravato dalla solitudine e dall’impotenza ineluttabile di fronte agli ingranaggi inarrestabili di leggi preconfezionate o addirittura di un mondo che non ascolta e soprattutto non perdona. Un individuo solo contro tutti, che sembra, alla fine di un calvario, accettare la condanna e la morte come una desiderata liberazione. Illuminante il capitolo VII, che disquisisce su vari tipi di assoluzione: la “vera”, quasi mai comminata, quella “apparente”, che protrae le inchieste all’infinito, il “rinvio”, che consiste in un basso profilo delle procedure che mai si concludono. Una sorta di intrighi, degni dell’Azzeccagarbugli manzoniano. Un’altra chiave di lettura può leggersi nel capitolo IX: la predica, con “voce possente ed esercitata”, di un prete dal pulpito del Duomo della città, rivolta esclusivamente a Joseph K. ivi recatosi per incontrare un cliente della banca, si traduce alla fine in colloquio, apparentemente oscuro, nel quale il predicatore, sedicente cappellano del tribunale, cita ripetutamente una imperscrutabile Legge il cui accesso è proibito all’uomo da una sola persona, un fantomatico Guardiano. “ Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni, ti lascia andare quando vai”. Una metafora della vita, indifferente alle umane vicissitudini, un fluire lento, inutile lottare o cercare di capire.
I personaggi del romanzo, almeno alcuni, sembrano simboli irreali: l’ispettore del tribunale, i colleghi di Joseph K., il giudice istruttore, Karl, lo zio del protagonista, l’avvocato Huld, perennemente malato, inconcludente nel procedimento giudiziario, il vicedirettore della banca che s’approfitta delle difficoltà di Joseph K., cercando di trarne vantaggi, il pittore Titorelli, strana e ambigua figura di ritrattista , e poi le donne, sfuggenti, la signora Grubach, affittacamere, la signorina Burstener, le tre monelle del pittore, e soprattutto Leni, infermiera e domestica dell’avvocato Huld, dolce e compiacente, civettuola quanto basta per tingere di leggerezza e di sensualità una trama narrativa altrimenti cupa e angosciante. E sono proprio i personaggi simbolici a suggerire una nuova interpretazione del romanzo, inteso come paradossale visione onirica, un lungo, snervante sogno di un individuo tormentato, rassegnato di fronte all’incombere di un destino già scritto.
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Riletto da poco "Lettera al padre", mi sono più comprensibili le inquietanti atmosfere kafkiane.