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LA GRANDE MINACCIA
“La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica.”
Ne “Il complotto contro l’America” Philip Roth indossa a sorpresa l’abito inusuale del narratore fanta-politico e borgesianamente immagina cosa sarebbe successo nel 1940 se a vincere le elezioni presidenziali, al posto di Roosevelt, fosse stato l’isolazionista Charles A. Lindbergh, il famoso aviatore che anni prima aveva con il suo aeroplano attraversato da solo l’Oceano Atlantico da costa a costa. Il bello dell’esperimento di Roth è che l’ipotesi non è del tutto implausibile: Lindbergh era stato davvero in Germania, dove nel 1936 gli era stata attribuita da Hitler una onorificenza per i suoi meriti aeronautici, e in patria aveva realmente espresso posizioni fortemente isolazioniste e antisemite, pur scegliendo di non scendere mai direttamente nell’agone politico. Quello che fa Roth è invece immaginare che Lindbergh, forte del suo carisma personale, si sia candidato alle elezioni del 1940 e le abbia vinte con largo margine, sfruttando la popolarità delle sue tesi demagogiche. Quello che accade da quel momento, nei due anni della sua drammatica presidenza, ci fa capire come nessuna democrazia sia davvero al sicuro se i valori sui quali essa è fondata non vengono difesi quotidianamente dagli attacchi dell’ignoranza, della xenofobia e del fanatismo. La comunità ebraica americana, che si sente immediatamente minacciata dalla nuova presidenza, non viene infatti direttamente colpita da provvedimenti discriminatori, ma quello che avviene è l’esemplificazione classica del piano inclinato: all’inizio è una questione di semplici sfumature, di atteggiamenti (una stanza d’albergo prenotata con settimane di anticipo dalla famiglia ebrea del protagonista che all’arrivo viene trovata già occupata, un poliziotto ostile e per nulla disposto a prendere in considerazione le legittime lamentele della parte lesa), più avanti subentrano delle misure governative apparentemente messe in atto per favorire meglio l’integrazione della comunità ebraica, in realtà aventi il subdolo scopo di disgregare la sua proverbiale coesione etnica (il campo di lavoro volontario nel Kentucky al quale partecipa Sandy, il fratello maggiore del protagonista, il trasferimento forzato della famiglia in uno Stato lontano e a bassissima densità israelita), e alla fine si arriva ai veri e propri pogrom antisemiti (dei quali rimane vittima la povera mamma di Seldon). C’è una sola parola per definire tutto questo: agghiacciante. Agghiacciante proprio perché assolutamente naturale e credibile, anche senza voler sostenere l’ipotesi (che giustamente Roth lascia nel vago) di un presidente ricattato dai nazisti che gli hanno segretamente rapito il figlio. Bisognerebbe abbandonare la posizione apodittica che nella nostra civilissima società occidentale non potrebbero più ripetersi episodi di dittatura, di sospensione dei diritti civili, di persecuzioni razziali, per riflettere che in fondo (anche se non so se questa sia stata l’intenzione dell’autore) negli anni di stesura del libro siamo andati vicini proprio a questo (ci siamo già dimenticati di un’elezione presidenziale contestatissima, vinta da Bush grazie a un conteggio dei voti da repubblica sudamericana? e di una guerra dichiarata in base a prove che si sono poi rivelate false e inventate di sana pianta? e di Guantanamo?). No, quella di Roth, a ripensarci, non è fanta-politica, ma una versione alternativa della Storia che – per fortuna – alla fine, dopo il fallimento del golpe ordito da Wheeler dopo la scomparsa di Lindbergh, si ricongiunge con quella riportata dai libri di testo scolastici: la riconquista della presidenza da parte di Roosevelt, l’attacco di Pearl Harbour e l’intervento statunitense nella Seconda Guerra Mondiale. Con un’unica, importantissima differenza: che al termine di tutte le peregrinazioni la situazione di equilibrio ripristinata non è più la stessa di quella di partenza, perché negli animi dei protagonisti ebrei, ma presumibilmente anche di gran parte della popolazione americana, si è depositata, dopo quella che Roth chiama l’”eterna paura”, una consapevolezza nuova, quella di non poter più credersi al riparo, neppure nella più grande democrazia del mondo, tutelata da costituzioni, emendamenti, leggi ed organismi deputati ad applicarli, dal risorgere dell’odio atavico e della violenza dell’uomo contro il suo simile.
“Il complotto contro l’America” non sarebbe quel bel libro che è se si limitasse al suo versante fanta-storico. In realtà esso è anche, e soprattutto, un romanzo di formazione (sulla falsariga di tanti capolavori della letteratura americana e non come “Le avventure di Augie March”, “Chiamalo sonno” e “Le ceneri di Angela”) in cui Phil, un bambino ebreo che nel primo capitolo ha sette anni e nell’ultimo nove, assiste con il suo sguardo infantilmente candido alle peripezie della sua famiglia, fervidamente patriottica, filo-rooseveltiana e interventista e destinata con lo scorrere dei mesi a non riconoscersi più in un’America sempre più intollerante e pericolosamente incline a svendere le proprie tradizioni liberali e democratiche per sposare l’ideologia fascista trionfante in Europa. La scelta di un bambino come protagonista fa sì che le tragedie della Storia si mescolino alle piccole tragedie infantili e la salvaguardia della sicurezza familiare si sovrapponga a quella della propria collezione di francobolli, dando in tal modo alla narrazione un tono lieve e fiabesco, anche se non spensierato, perché l’acuta sensibilità di Roth sa benissimo che l’infanzia è popolata di sogni, fantasie e desideri, ma anche naturalmente piena di terrori, soprattutto se si è un bambino ebreo nell’epoca dei campi di concentramento di Hitler. Phil appartiene a una classica famiglia ebraica americana del XX secolo, né povera né benestante (padre venditore di polizze e madre casalinga), atavicamente portata ad abitare in un ghetto ebraico e sospettosa nei confronti dei goyim, ma per il resto pienamente integrata nelle tradizioni e nello stile di vita americani (non è un caso che per la loro prima vacanza fuori dello Stato del New Jersey il padre di Phil porti la famiglia a visitare la Casa Bianca di Washington). E’ con profondo stupore e inquietudine che Phil assiste al progressivo deflagrare delle tensioni nella sua famiglia e nel suo quartiere: dapprima è lo zio Alvin che, partito volontario con l’esercito canadese per la guerra europea e tornato senza una gamba, porta nella loro casa la presenza fisica e tangibile (il moncherino a cui è intitolato un capitolo del romanzo) della tragedia che si sta consumando fuori della porta di casa; poi è la volta della zia Evelyn, moglie di un influente rabbino che occupa un posto di riguardo nell’Amministrazione e che per questo subisce l’astiosa ostilità del capo-famiglia, ad allontanare gradualmente dall’influenza paterna il fratello maggiore di Phil facendone uno stolido sostenitore di Lindbergh insofferente delle proprie origine ebraiche; infine è il trasferimento nel lontano Kentucky imposto al padre dalla compagnia assicurativa per cui lavora a mettere a repentaglio quel poco di tranquillità familiare che rimane e a costringerlo a licenziarsi per andare a lavorare - di notte e sottopagato – al mercato ortofrutticolo con lo zio Marty. Se a ciò si aggiungono inquietanti interrogatori dell’FBI, amici di famiglia che prudenzialmente si trasferiscono in Canada e ronde ebraiche che si sostituiscono alla polizia per proteggere il quartiere da assalti stile “notte dei cristalli”, è inevitabile che la paura e le tensioni siano destinate a esplodere fragorosamente. E’ in queste pagine indimenticabili, in cui un bambino si trova ad assistere senza più il filtro e le protezioni garantitegli dai genitori a cose troppo più grandi di lui, che si rivela la bravura di Roth: nel descrivere il bestiale litigio tra Alvin e il padre di Phil (“fu così che la grande minaccia ci distrusse – commenta l’io narrante – e l’abominio della violenza entrò nella nostra casa, e io vidi come l’amarezza acceca un uomo”), nel rappresentare l’impotente smarrimento del genitore non più capace di assicurare la sicurezza dei suoi familiari, e soprattutto nel tratteggiare la straordinaria figura della madre di Phil, una madre come tante altre, che proprio per questa sua replicabile e insopprimibile natura materna assurge a connotazioni di epica grandezza (“come un ufficiale di combattimento”, annota Roth) quando aiuta per telefono il piccolo Seldon - il coetaneo di Phil rimasto da solo in casa, con la madre presumibilmente vittima delle violenze antisemite, a settecento miglia di distanza – a mettersi in salvo, Roth dimostra di possedere quella vena drammatica, tolstojana mi verrebbe voglia di dire, che gronda emozioni e sentimenti forti e che il pur pregevole “Lamento di Portnoy”, trentacinque anni prima, non lasciava certo presagire.
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Rimango sempre un po' diffidente verso questo autore, benché abbia apprezzato molto Pastorale Americana, che ho pure riletto con piacere e interesse. Ma ho trovato i suoi testi letti alquanto disomogenei per qualità. Comunque ho da poco acquistato il suo libro "Patrimonio".