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IL CANTO DEI VIVI E DEI MORTI
“A casa, a casa”, le ultime parole di “Canta, spirito, canta”, ricordano curiosamente l’invocazione “A Mosca, a Mosca” con cui si chiude il secondo atto de “Le tre sorelle di Anton Cechov. Non è però a Cechov che bisogna rivolgersi per cercare i numi tutelari di Jesmyn Ward, bensì a due mostri sacri della letteratura americana del Novecento, Toni Morrison e William Faulkner. Dalla Morrison la Ward, anche lei afroamericana, riprende certe soluzioni narrative (come non pensare al fantasma della bambina di “Amatissima”?), ma soprattutto il tema razziale, l’accorato ritratto della condizione delle persone di colore nelle varie, dolorose fasi della storia degli Stati Uniti d’America. A Faulkner l’accomuna invece non solo la stessa area geografica d’appartenenza (il Mississippi), ma anche una spiccata affinità tematica, già emersa in “Salvare le ossa”. Nel folgorante primo capitolo della trilogia di Bois Sauvage la Ward omaggiava il celebre autore di “Assalonne, Assalonne!” in più di un’occasione: la ragazza incinta in una famiglia di soli maschi e l’uragano in arrivo possono essere considerati delle vere e proprie citazioni di “Mentre morivo”. In “Canta, spirito, canta” la somiglianza tra i due scrittori va ancora oltre e si fa addirittura stilistica. Come ne “L’urlo e il furore” e in “Mentre morivo” la storia viene infatti raccontata da una pluralità di narratori. Il primo – e più importante – è Jojo, un ragazzino tredicenne costretto a vivere senza l’affetto dei genitori e ad entrare prima del tempo nel mondo dei grandi (diventando persino un surrogato materno per la piccola sorellina Kayla, che gli è sempre avvinghiata al collo, un po' come Junior con il fratello maggiore Randall nel romanzo precedente). La seconda voce narrante è proprio quella di Leonie, la madre assente, che vorrebbe prendersi cura dei propri figli ma è assolutamente priva di istinto materno, chiusa com’è nella sua egoistica e autodistruttiva sfera personale, gelosa addirittura del ruolo assunto da Jojo nei confronti di Kayla che la mette crudelmente di fronte al suo fallimento genitoriale. Il terzo narratore è il più sorprendente, quello che porta Jesmyn Ward alle soglie di un inaspettato realismo magico: Richie infatti è un fantasma, lo spettro tormentato di un ragazzino morto di morte violenta più di mezzo secolo prima, che vaga da allora alla disperata ricerca di una problematica pacificazione. Richie non è comunque l’unico spirito che si aggira tra le pagine del romanzo, anzi a tratti al lettore sembra di trovarsi immerso nell’universo fantasmatico e soprannaturale di “Pedro Paramo” o di “Spoon River”. Il mondo descritto dalla Ward è infatti pervaso da forze ed energie che trascendono ad ogni istante la prosaica quotidianità: Mama, la nonna di Jojo, confinata nel suo letto da un male incurabile, recita preghiere hoodoo, mentre Pop, il nonno, vagheggia una filosofia dell’equilibrio cosmico secondo la quale è possibile acquisire un po’ della forza del cinghiale o dell’abilità del picchio portandosi appresso un pezzo di zanna dell’uno o una piuma dell’altro (“non più di quella che posso usare, però. Il cinghiale non può spartirne più di tanta con me, e io più di tanta non ne prendo. […] Il troppo, da una parte o dall’altra, rompe l’equilibrio”). Quello di “Canta, spirito, canta” è un universo magico, animistico, in cui lo spirito pervade ogni cosa e la saggezza risiede nella capacità di vedere i morti, di sentire le cose o più semplicemente di costruire amuleti per scacciare la cattiva sorte od usare le erbe selvatiche per curare le malattie. Non sorprende più di tanto quindi che i personaggi del romanzo vivano in una sorta di costante sospensione dell’incredulità, che fa loro accettare le apparizioni (un po' alla stregua di quanto accadeva ne “La casa degli spiriti di Isabel Allende) come un qualsiasi altro aspetto dell’esistenza. Esistenza che, peraltro, non si rivela affatto facile e tranquilla, impregnata com’è dalla presenza costante e opprimente della morte. “Io lo so cos’è la morte, almeno credo”, afferma Jojo all’inizio del libro, e la scena truculenta dell’uccisione della capra (che fa il pari con la sequenza del parto della cagna di Skeetah in “Salvare le ossa”) fissa fin da subito le coordinate su cui si svilupperà la storia. Il mondo di “Canta, spirito, canta” è connotato da violenza, razzismo, povertà, droga, fatica di vivere. Frasi come “Non c’è felicità qui”, “Il mondo non ti dà quello che ti serve, non importa quanto lo cerchi”, “E’ un mondo che si prende gioco dei vivi”, punteggiano tutto il romanzo, e perfino il clima e la natura risultano opprimenti (“Il gelo ristagna come acqua in una vasca otturata”; il cielo è “basso come un colabrodo di ferro troppo pieno”). L’unica possibilità è imparare a lasciarsi trasportare dalla corrente, senza cercare di opporsi ad essa, come insegna al nipote il vecchio Pop, una delle figure più belle ed icastiche del romanzo, con la sua schiena dritta come una tavola, le spalle larghe come un attaccapanni e le mani che sembrano le radici di un albero, simbolo della fierezza e dell’integrità morale, ma anche portatore di un terribile, inconfessabile segreto proveniente dal passato.
La prosa di Jesmyn Ward si adatta alla perfezione a questa densa e complessa atmosfera narrativa: le sue parole sono materiche, carnali, in esse si può percepire agevolmente la fatica, il malessere, il sudore perfino, di un'umanità alle prese con la quotidiana lotta per la sopravvivenza. Rispetto a “Salvare le ossa” la scrittrice di DeLisle sacrifica un po' della straordinaria tensione, dell'irresistibile suspense garantita dall'avvicinarsi dell'uragano Katrina. In compenso con “Canta, spirito, canta” la Ward alza notevolmente il tiro delle sue ambizioni, per affrontare in maniera originale e problematica il tema a lei caro del razzismo. Anche se il romanzo è ambientato ai nostri giorni (il padre di Jojo e Kayla ha perfino lavorato, prima di finire in carcere, sulla Deepwater Horizon, la piattaforma petrolifera passata tristemente alla storia per essere stata distrutta da un catastrofico incidente nel 2010), il razzismo ha segnato duramente la famiglia di Jojo, giacché lo zio Given è stato ucciso a sangue freddo con un fucile in quello che è stato frettolosamente derubricato dalle autorità come un semplice incidente di caccia, e il nonno Pop ha trascorso in gioventù alcuni anni nella prigione di Parchman, dove se si era di colore si poteva venire imprigionati a dodici anni per aver rubato un po' di carne salata e dove i lavori forzati erano una forma aggiornata e legale di schiavitù. Linciaggi, stupri e violenze, l'odiosa, secolare oppressione dei bianchi nei confronti dei neri, costellano il romanzo con una frequenza sconvolgente. La scelta della Ward di fare di Richie uno dei protagonisti del romanzo appare quindi come una sorta di risarcimento, un modo per restituire la voce a coloro che la storia ha costretto al silenzio e a una vergognosa, ingiustificabile rimozione collettiva. Non solo, con il suo stile inconfondibilmente lirico e visionario la Ward è riuscita a fare delle vicende individuali di Jojo, di Kayla e di Pop una potente metafora della questione razziale in America. Richie, Given e gli altri spettri che, come degli stalker, assillano i vivi con la loro silenziosa e impalpabile presenza, non sono in grado di trovare la pace neppure dopo la fine delle loro sofferenze terrene, in quanto hanno bisogno di qualcuno che racconti la loro storia e che riporti in superficie quel nucleo di tremenda disperazione vergognosamente seppellito e condannato all'oblio insieme alle loro misere spoglie mortali. L'atto di raccontare diventa così centrale nell'economia del romanzo (“Quando racconta – dice Jojo riferendosi a Pop – la sua voce è come una mano tesa che mi accarezza la schiena”): è per i personaggi del libro una sorta di catarsi, di comunione d'anima, di disinteressata manifestazione di affetto, e a un secondo livello – metanarrativo si potrebbe dire – simboleggia quella che è l'autentica missione dello scrittore, ossia far emergere a tutti i costi la verità storica, per quanto scomoda e imbarazzante possa essere, sottraendola alla dimenticanza e alla rimozione. In questo senso Jojo e Kayla sono i veri e propri alter ego dell'autrice, capaci – pur non avendo vissuto gli eventi narrati (così come la Ward, nata nel 1977, non ha vissuto gli anni bui della schiavitù e della segregazione) – di farsi garanti, con la loro rabdomantica sensibilità e la loro innocenza, della memoria delle sofferenze di un popolo. Il romanzo, crudo, sconvolgente, tragico, ma anche punteggiato di momenti di grazia e di tenerezza (Kayla che, coi suoi cinque anni avidi di affetto, stropiccia le orecchie di Jojo, mentre lui la tiene per le braccia “come se volesse avvolgersi intorno a lei, fare del proprio scheletro e della propria carne un edificio per proteggerla dagli adulti”; ancora Jojo che abbraccia Pop, affranto dal dolore e dal rimorso per aver finalmente tirato fuori dai recessi della memoria ciò che per tanti anni non aveva mai avuto il coraggio di raccontare), non vuole del tutto chiudere ogni spiraglio alla speranza. Se è vero che, citando Kafka, “abbiamo bisogno di libri che abbiano su di noi l'effetto di una sventura, che ci diano molto dolore” e che “un libro deve essere come una scure piantata nel mare di ghiaccio che è dentro di noi” - ed indiscutibilmente “Canta, spirito, canta” è uno di quei libri – è altrettanto vero che Jesmyn Ward non rinuncia a lanciare, anche a dispetto di ogni evidenza contraria, un messaggio di fede in valori come la solidarietà e la famiglia. All'inizio del romanzo, assaggiando una torta scadente comprata a poco prezzo per il compleanno del figlio, Leonie trova che è tanto dolce da sembrare amara. Ebbene, “Canta, spirito, canta” è esattamente il contrario: è tanto amaro che, alla fine, risulta quasi dolce.
Indicazioni utili
"Mentre morivo" di William Faulkner