Dettagli Recensione
UN GENE SOLITARIO SULLE MONTAGNE RUSSE DEL TEMPO
“La vita più che nel futuro ti proietta nel passato, indietro fino all’infanzia e a prima della nascita, fino a dove si comunica con i defunti”
Quello del romanzo di Jeffrey Eugenides è un titolo sottilmente ambiguo. Middlesex è infatti il quartiere di Grosse Pointe dove la famiglia Stephanides si trasferisce da Detroit alla fine degli anni ’60, ma allude altresì alla condizione del protagonista, un ermafrodito dalla sessualità indefinita, metà femmina e metà maschio, “middlesex” appunto. L’incipit è eccezionalmente iconico: “Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan”. Calliope/Cal, il narratore, nasce infatti con una rara malformazione: pur essendo geneticamente maschio, possiede, sia pure incomplete, le gonadi di entrambi i sessi. Siccome però nessuno alla nascita si accorge della cosa, egli viene allevato come una bambina. In modo simmetricamente opposto a quanto avveniva nei due romanzi di Tahar Ben Jelloun, “Creatura di sabbia” e “Notte fatale”, le influenze imposte (qui peraltro involontariamente, in buona fede se così si può dire) dall’ambiente si scontrano e prevalgono su quelle determinate dalla struttura cromosomica. Come si può ben capire, quello di “Middlesex” è un materiale narrativo incredibilmente forte, gravido di implicazioni psicologiche, antropologiche, mediche e sociali. Eppure Eugenides fa una scelta per molti versi spiazzante: toglie Calliope/Cal dalla scena per quasi metà del romanzo (fatta eccezione per alcuni brevi e fuggevoli accenni alla sua vita attuale) e, con una mossa genialmente azzardata, decide di andare cronologicamente a ritroso, di risalire la corrente del tempo, srotolando all’incontrario il sottile e impalpabile filo delle memorie familiari per raccontare la storia di due generazioni di Stephanides, alla ricerca di quel “peccato originale” che è la causa segreta della presenza nel corredo genetico del narratore di un cromosoma difettoso. “Io sono la proposizione conclusiva di una frase periodica, – dichiara eloquentemente all’inizio del romanzo - e quella frase comincia molto tempo fa, in un'altra lingua, e bisogna leggerla dall'inizio alla fine, che poi corrisponde al mio arrivo.” La cornice diventa così, imprevedibilmente, il centro di interesse del quadro, e scopriamo così che Desdemona e Lefty, i due nonni del narratore, sono in realtà fratelli di sangue, che hanno approfittato del viaggio dalla Turchia in America per coronare all’insaputa di tutti la loro incestuosa storia d’amore; e che Milton, il loro figlio, a sua volta ha sposato una sua cugina prima, permettendo al gene recessivo che probabilmente, in maniera innocua, veniva tramandato da centinaia di anni, di uscire improvvidamente allo scoperto. Questo retrocedere nel passato alla ricerca di una causa prima ricorda un po’ “Il signor Mani” di Abraham Yehoshua: ma se nel romanzo dello scrittore israeliano il “riavvolgere la pellicola all’indietro” faceva emergere un atavismo che è la metafora di un intero popolo, qui esso è l’occasione per raccontare una saga familiare, e indirettamente un’epoca storica, con un’operazione letteraria molto più “facile” e popolare. Con le parole di Cal, narratore inesplicabilmente onnisciente (quasi che i propri geni in attesa di nascere gli abbiano lasciato in eredità, oltre alle tare fisiche, anche la capacità di vedere retrospettivamente il passato), si dipanano così drammi personali (la “strana” morte di Zizmo) e tragedie collettive (l’incendio di Smirne, la Grande Depressione), stemperati però in un racconto ampio, arioso, fluente, con un ritratto vivace e colorito della comunità greca in America (con le sue cerimonie religiose, i suoi rituali quotidiani, le sue credenze e le sue superstizioni) che è forse la parte migliore del libro. Su tutti i personaggi emerge quello, umanissimo, di Desdemona, la nonna del protagonista, che vive in America come una perenne esule, con omerici accessi di disperazione e una costante aria di disapprovazione dipinta in volto o espressa attraverso il tempestoso agitare del suo ventaglio; legatissima alla tradizione e alla religione natia, con il suo inseparabile ritratto del patriarca Atenagora appeso sopra il letto, gira sempre con una scatola di legno dove un tempo conservava i bachi da seta e ora tiene un cucchiaio che utilizza per indovinare il sesso dei nascituri; dopo la vedovanza, infine, si ritira definitivamente nel suo letto dove “trascorre un decennio cercando con grande vitalità di morire”, organizzando nei minimi dettagli il proprio funerale e sfogliando il catalogo di bare “con l’eccitazione di chi esamina i depliant di un’agenzia di viaggi”. Nella mente rimane impresso anche l’anziano marito Lefty il quale, dopo un colpo apoplettico, inizia a perdere la memoria, dapprima le informazioni più recenti e poi, via via, quelle più vecchie, così che, mentre tutti si muovono avanti nel tempo, lui lo percorre all’indietro (un po’ come il romanzo, del resto), tornando con la mente il ragazzo greco che era cinquant’anni prima. Anche quando, dopo avere attraversato l’ascesa e il declino dell’industria automobilistica di Detroit, i murales di Diego Rivera e lo swing di Artie Shaw, la seconda Guerra Mondiale e la caccia alle streghe, nasce finalmente Calliope, il tema “bollente” dell’ermafroditismo continua a rimanere sullo sfondo, perché nessuno, nemmeno il vecchio medico di famiglia, si rende conto della sua anomalia. Così Calliope cresce come una bambina normalissima, e la sua infanzia è raccontata con toni di aneddotica leggerezza (come quando, nel pieno dei disordini razziali scoppiati a Detroit nel 1967, la piccola pedala in piena notte dietro un carro armato per andare a salvare l’amato papà accorso in città per cercare di salvare dalla distruzione il suo ristorante). E’ solo con l’arrivo della pubertà che il romanzo affronta la fase più problematica, quella in cui la ragazza inizia a percepire che c’è qualcosa che non va nel suo corpo (il seno non si sviluppa, le mestruazioni tardano ad arrivare), ma queste preoccupazioni si mescolano e si confondono con i normali dubbi di ogni adolescente alle prese con un corpo in continua, imprevedibile, trasformazione e con un’identità sessuale ancora incerta e non ben definita. Eugenides è bravissimo sia ad evitare una eccessiva “pruderie” sia a non solleticare morbosità voyeuristiche da buco della serratura: l’anomalia dei genitali di Calliope è descritta in termini delicati ed allusivi (il piccolo pene nascosto che viene paragonato, con una garbata metafora floreale, a un croco), mentre la sua ambiguità sessuale (già emersa inconsciamente nella scelta di interpretare l’indovino Tiresia – che nel mito aveva vissuto sette anni da donna – nella recita scolastica di fine anno) viene rivelata in una scena surreale e psichedelica, quando, strafatto dalla marijuana fumata con gli amici, esce sciamanicamente dal suo corpo per entrare in quello di Rex che sta pomiciando con l’Oscuro Oggetto (ovverossia l’amica del cuore), e così facendo riesce a “fare l’amore” con l’ambita meta del suo inconfessato desiderio per – se così si può dire – interposta persona. Si capisce come siamo lontani dai toni tragici di opere analoghe (penso per esempio a film come “XXY” di Lucia Puenzo o il più recente “Girl” di Lukas Dhont): la vicenda di Calliope precipita nel dramma solo con la visita al dottor Luce e, soprattutto, con la scena nella biblioteca pubblica in cui la (ancora per poco) ragazza cerca in un voluminoso vocabolario il significato di “ipospadia”, che la rimanda al termine “eunuco”, che a sua volta la rinvia a “ermafrodito” e infine all’inquietante parola “mostro”, che mette per la prima volta il narratore di fronte alla sua reale condizione, quella di un personaggio percepito dagli altri come un Minotauro dei nostri giorni, uno scherzo di natura, una creatura da rifuggire con un moto di ribrezzo. E’ un peccato che Eugenides, fino a quel momento splendido equilibrista della parola, rischi di rovinare tutto con una repentina e immotivata svolta dickensiana, quando il protagonista, scoperto dalla relazione del dottore dimenticata inavvertitamente sulla sua scrivania di essere geneticamente un maschio e spaventato all’idea di una probabile operazione chirurgica, scappa via dai genitori e si mette a peregrinare in California come un homeless. Confesso che certe sequenze, che si allontanano dalla miracolosa leggerezza mantenuta fino ad allora, mi hanno lasciato un po’ interdetto (come quando Calliope, ormai diventato a tutti gli effetti Cal, finisce per esibirsi in un equivoco peep show di San Francisco come uno dei “freaks” di Tod Browning), così come ho trovato discutibile la “captatio benevolentiae” del lettore quando gli si rivolge con espressioni del tipo “Paziente lettore, può darsi che tu ti sia chiesto…”. Al di là di queste piccole sbavature (tra le quali includo anche la deludente ed affrettata descrizione della vita di Cal adulto), che non sono comunque tali da inficiare il più che lusinghiero giudizio sul romanzo, Eugenides si rivela un narratore di razza, dalla prosa prodigiosamente sciolta, elegante e raffinata. Forse perché in parte riecheggia reali esperienze familiari dell’autore (il padre di Eugenides era anch’egli figlio di immigrati greci, e l’autore è nato e cresciuto a Detroit proprio come Cal), “Middlesex” risulta, se non magari il suo romanzo artisticamente più riuscito (molti gli preferiscono “Le vergini suicide”), sicuramente la sua opera più autentica, sentita e personale.
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Il libro ce l'ho già da parecchio tempo, il tuo commento me lo ha ricordato e riclassificato, quest'anno magari mi dedicherò alla sua lettura.
Dell'autore si parla assai. M'incuriosisce, ma dalla tua presentazione, in questo libro c'è qualcosa che non mi convince.
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