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Continuare a vivere anche innanzi al crollo della
«Gli anni possono essere lunghissimi mentre li si vive e si cerca in qualche modo di farsi strada a tentoni verso un futuro ignoto, ma quando ci si ripensa, molto tempo dopo, sembrano volati. Vivere proiettati nel futuro induce una certa irresolutezza, un costante vagare con lo sguardo; ma se non ci si pensa al futuro, si rischia di perdere facilmente di vista le occasioni importanti e le possibilità. Perciò ci si guarda intorno, si vaga costretti a fare una scelta improvvisata dopo l’altra. Non è così con lo sguardo retrospettivo. Non si vaga con lo sguardo, quando ci si guarda indietro. I ricordi si limitano a muoversi lungo la linea della vita così come è stata»
Quanti anni sono trascorsi da quel primo incontro che è stato semplicemente un colpo di fulmine... Lui si chiama Albert, adesso è un docente accademico diventato nonno, lei si chiama Eirin, ed è da tempo specializzata in biologia delle acque dolci, ricercatrice presso l’Istituto norvegese per la ricerca delle acque e spesso all’estero per lavoro. Dal giorno che i loro sguardi si sono scrociati, il loro amore ha avuto inizio e ancora adesso, a distanza di trentasette anni, il sentimento è vivo. Ha avuto soltanto un piccolo cedimento ed è stato preceduto da una sola fidanzatina, Marianne, divenuta poi medico di famiglia della coppia essendo rimasti ottimi i rapporti. Scenario della nascita dell’affetto, del consolidarsi della vita coniugale ma anche del nuovo scoglio che Albert è chiamato ad affrontare è lei: la casa delle fiabe. Tutto è sempre stato “semplicemente perfetto” sino alla scoperta di quel male sinonimo di sentenza irrevocabile. Cosa fare? Aspettare che il decorso abbia luogo? Intervenire prima? Qual è la giusta scelta da intraprendere? Come tutelare se stessi e i propri cari?
È da questi brevi assunti che ha inizio l’ultimo romanzo a firma Jostein Gaarder, autore noto al grande pubblico grazie a opere quali “La ragazza delle arance” e il mondo di Sofia” e per il riuscire a destinare ai suoi lettori scritti sempre intrisi di grande sensibilità nonostante la drammaticità delle tematiche trattate (come anche questa volta in cui le aspettative non vengono ad essere disilluse e disattese).
Fulcro libricino è il titolo stesso, titolo ripetuto con cadenza regolare all’interno dell’opera in quanto essenziale per dimostrare quanto la quotidianità, spesso, appunto, perfetta, e incuneata su binari lineari che seguono un percorso determinato e preciso, possa essere sconvolta da fattori esterni e indeterminati. Un po’ come la favola di “riccioli d’oro” che ha più interpretazioni ma che cela ben altro oltre che una prima definizione positiva e superficiale.
Disorientato e solo perché Eirin si trova in Australia, il protagonista si interroga sul senso della vita, sul senso della sua esistenza e sul senso dell’esistenza del mondo. Dal “Big Bang”, agli atomi, alla vita, egli giunge ad analizzare il proprio decorso, il proprio cammino e a chiedersi se sia giusto continuare a vivere sapendo di non avere più possibilità, con la consapevolezza che il tempo che ci è stato concesso si sta inesorabilmente esaurendo, se sia giusto, ancora, “condannare” i nostri cari ad assistere al nostro declino, alla nostra fine, al consumarsi della nostra fiammella vita sino al suo completo spengersi. Però, in tutto questo, anche quando ormai la decisione sembra essere presa, c’è ancora un barlume e quel barlume si chiama speranza.
Quelle di Albert sono domande comuni a ciascun uomo, chi non si è mai interrogato sul senso del proprio essere? Sul senso del vivere? Sul proprio posto nel mondo? Ancor più e a maggior ragione se le circostanze sono tali da porre un fine a quella che è la nostra permanenza su questo pianeta. Problematiche importanti, affatto scontate, che vengono trattate con delicatezza ed empatia dallo scrittore e che vengono vivisezionate con cura e dovizia ma senza mai cadere nel banale. Il risultato è che chi legge e si avvicina al testo si sente parte delle vicissitudini degli eroi presentati, le sente proprie, comprende i vari punti di vista e li accetta per quel che sono senza emettere giudizi o sentenze. Unica pecca che ho riscontrato, per mio modesto gusto personale, è un uso un po’ eccessivo, a tratti, del passato remoto, tempo verbale che può rallentare lo scorrimento del componimento e renderlo farraginoso.
Nel complesso un elaborato che resta, che fa interrogare, che suscita riflessioni. Breve ma intenso.
«Penso al tempo che mi resta, né troppo lungo né troppo corto, il tempo perfetto per un addio»