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Marie aspetta Marie
 
Marie aspetta Marie 2019-04-08 16:09:40 Fabiana83
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
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5.0
Fabiana83 Opinione inserita da Fabiana83    08 Aprile, 2019
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Un esordio da leonessa, un epilogo da ronzino

Di Marie sappiamo poco. Ha trent’anni, i capelli ravvivati da mille riflessi cangianti, le mani grandi, belle e negli occhi scuri lo sguardo velato che sembra posarsi sulle cose con indifferenza.
Eppure è una donna colta, dalla mente fervida, dotata di uno spiccato senso critico ed etico che la porta a rifiutare ogni tentativo di banalizzazione, di svilimento, di volgare semplificazione dello scibile umano. Insomma preferirebbe curare una rubrica di ricette culinarie piuttosto che ridurre le opere dei grandi pensatori, come Spinoza, Kant, Platone, Bergson, in filosofia da bignami, in pillole di sapere da somministrare ad un pubblico svogliato.

Ha un marito, Jean, “un uomo che non vede niente. Guarda senza vedere”.
I due sono in vacanza su una spiaggia della Costa Azzurra. Questo l’incipit, un inizio che ha indubbiamente un taglio cinematografico e una scrittura che, come una sorta di macchina da presa, cattura un primo fermo immagine: lei poggia la testa sulla spalla di lui e pensa “Jean è qui, vicino a me. L’unico uomo che amo al mondo”.
Tornano alla memoria alcune conversazioni tra amiche, “Marie sei la sola tra noi a conoscere la felicità”, le dicevano, “tu ami profondamente tuo marito e sei riuscita a realizzarti appieno nell’amore”.
Ma cos’è la felicità? Questo ora si domanda la donna. E’ un oggetto che basterebbe scovare e appendere in casa come un rametto di vischio?

La narrazione procede senza discontinuità con un secondo fotogramma: Jean entra in acqua, Marie si volta e vede un giovane di bell’aspetto, disteso sulla sabbia. Osserva il suo corpo abbronzato, lo studia come un gatto sornione la sua preda. Di fronte ha il marito, “realtà addomesticata, aura soave fatta della dolcezza e del calore delle cose familiari” e di lato invece uno sconosciuto, “un’altra realtà, altra aurea. Una realtà da indovinare, da afferrare, da fare propria”. E’il fascino e la vertigine di un mondo nuovo, inesplorato.
Niente sarà più lo stesso. Quel bigliettino su cui è stato trascritto un numero telefonico segnerà il punto di non ritorno.
Il cambiamento è in atto e la scrittrice ce lo comunica con la forza analogica di una bellissima metafora: quel cielo ancora sereno sul mare iniziava ad offuscarsi sopra il paese. Nuvole minacciose fecero la loro prima comparsa, un brontolio sordo annunciava l’arrivo della tempesta.
Con una smorfia comica Jean, l’uomo che non sa vedere, si rivolge a sua moglie: “Povera Marie, preparati a soffrire, tu hai paura dei temporali”. La donna non risponde, si gira e osserva le montagne. Immagina di scendere da sola giù da quei ripidi pendii con il viso esposto all’acquazzone “freddo e violento”. Una pioggia battesimale che lava, purifica, rigenera e restituisce alla vita l’aria che le era stata tolta. Marie è una donna nuova, “vergine”, consapevole di avere qualcosa di irrisolto con quella ragazzina, dalle ossa fragili, che in tailleur grigio usciva da un’aula della Sorbona per scomparire e annullarsi tra le braccia dell’uomo che, qualche anno più tardi, sarebbe diventato suo marito. E a quella ragazzina ora chiede perdono.

Avverte tutti i limiti della sua apparente felicità coniugale, intuisce che essa ha escluso la reale comprensione del mondo e animata da un egoismo feroce, capisce che cercare un’esperienza della realtà, fatta in modo autonomo, è un imperativo morale a cui non può più sottrarsi. Quel bisogno interiore di solitudine, di autodeterminazione, che per una vita intera, era rimasto inascoltato, è riaffiorato in Marie con tutta la prepotenza e l’imprevedibilità di un nubifragio estivo. E in questo la forza della metafora.
Il mutamento in effetti avviene improvviso ed è affidato ad un elemento visivo, una situazione comune e apparentemente poco importante che invece assume un chiaro significato simbolico: Marie, come la Nora Helmer di Ibsen, si cambia d’abito e indossa un piccolo baschetto che non riuscirà a contenere “le ciocche ribelli”. Entrambe si sbarazzano del costume di “sposa devota” per vestire quello più autentico di donna, si liberano di un travestimento per sottrarsi al vecchio ruolo che ora non vogliono più “rappresentare”.
Per utilizzare un’espressione cara al drammaturgo norvegese, tanto Nora quanto la nostra Marie vogliono “tuffarsi in pieno nella società”. La prima, rendendosi conto della sua dipendenza dalla figura “paterna” del marito, rompendo ogni ipocrisia, abbandona la sua “casa di bambola” e i suoi figli per “educare se stessa”, per riscattarsi dal ruolo di eterno giocattolo a disposizione del coniuge, o più semplicemente, dirà lei, per diventare finalmente una “creatura umana”.
La nostra protagonista invece si immerge in una Parigi autunnale, ne respira la poesia. Predilige i luoghi meno battuti, scopre il piacere di pranzare da sola, in un Caffè all’aperto, e la quiete di quella camera a ore dove si lascia spogliare, come una bambina, dal suo giovane amante.

“Dov’eri Marie? Hai perso la strada?” Le chiedono. Al contrario, finalmente l’ha ritrovata, ma non una strada qualunque, piuttosto come direbbe Virginia Woolf “a street of ones’s own”, una strada tutta per sé.

A mio avviso non bisogna però pensare che il dramma di Ibsen e il romanzo della Bourdouxhe possano essere assunti a simbolo dell’emancipazione della donna dalla sua inferiorità e dalla sua dipendenza dall’uomo. Infatti non tanto per un’aurorale coscienza femminista che Nora, al pari di Marie, decide di cambiare vita, ma per un esigenza di autonomia individuale che famiglia e ambiente le negano. L’attenzione è rivolta ai valori del singolo e solo marginalmente a quelle convenzioni, pubbliche e private, che ne ostacolano la piena realizzazione.
Marie lo afferma a chiare lettere: “La società? Confesso che me ne infischio..mi interessa soltanto l’individuo- dopodiché, ognuno si occupi della propria vita”.

Indubbiamente Nora Helmer è decisamente più eversiva della nostra eroina. Infatti stanca di vivere alla giornata “come un povero mendicante” decide di lasciarsi tutto alle spalle, anche se questo significa allontanarsi dai suoi stessi figli e il dramma si conclude con il tonfo del portone richiuso violentemente. Un finale forte che attirò le critiche dei benpensanti a tal punto che lo stesso Ibsen fu costretto ad aggiungere un quarto atto in cui la protagonista riappare felicemente innamorata del marito.
Ben diversa è la conclusione del nostro romanzo. La distanza tra Marie e Jean è ormai incolmabile, e c’è un momento preciso che segna una sfasatura irreparabile: Marie lascia il suo anello al banco dei pegni per acquistare il biglietto di quel treno che la porterà dal suo giovane amante. Vendere l’anello dovrebbe significare disfarsi di un “simbolo”, mollare le redini e iniziare una vita nuova, più autentica. Questo però non accade. In Marie non esiste traccia della cosiddetta “follia di Aschenbach”, non c’è nulla che la renda simile al protagonista del racconto lungo “La morte a Venezia” che colpito dalla “bellezza perfetta” di un giovane polacco, per il quale prova una crescente e irresistibile attrazione, si abbandona a comportamenti sempre più lontani dall’ideale di autocontrollo e di decoro a cui ha ispirato la sua vita.
Marie resterà una femme au foyer, e quei fieri impulsi verso la pienezza del vivere vengono mortificati da un atteggiamento estremamente remissivo. Infatti sceglie di non allontanarsi da un marito che non ama e di vivere in una pericolosa schizofrenia: da un lato il quotidiano, il grigiore del menage domestico e dall’altro l’avventura, gli incontri clandestini con l’amante.
Tutto questo produrrà conseguenze anche sul piano stilistico, difatti nel romanzo di Madeleine Bourdouxhe mancano i forti conflitti, i colpi di scena, a tratti la prosa appare incolore.
Solo sul finale ho intravisto un interessante cambio di impostazione narrativa che non è puramente tecnico o accidentale, la scrittrice infatti decide di eclissare il narratore e di far parlare la stessa protagonista per focalizzare l’attenzione non tanto sul mondo esteriore quanto su quello interiore, sull’anima di un personaggio cui si lasciano intravedere contraddizioni mai prima intuite.




Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Lo consiglio indistintamente a tutti, trattandosi di un romanzo piacevole, con una narrazione semplice e lineare costruita intorno pochi personaggi in cui non è importante l'azione quanto l'analisi dei rapporti apparentemente consolidati.
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Commenti

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Un romanzo che ho amato molto, inaspettatamente. Bella la tua analisi iniziale e condivido molti dei riferimenti che citi! Complimenti :)
Complimenti, Fabiana, la tua é una recensione davvero di spessore, impreziosita oltretutto da citazioni molto appropriate e stimolanti.
In risposta ad un precedente commento
Fabiana83
10 Aprile, 2019
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Grazie mille, è un romanzo che io stessa ho apprezzato. Mi è piaciuto il modo in cui l'autrice ha raccontato la presa di coscienza della sua protagonista. Sono rimasta delusa per il finale che trovo poco coraggioso. Tutto qui.
In risposta ad un precedente commento
Fabiana83
10 Aprile, 2019
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Grazie mille.
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