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IO, VAGABONDO CHE SON IO
“Fluidità, mobilità e illusione: questo vuol dire essere civilizzati. I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie.”
Marc Augé coniò alla fine del secolo scorso un bizzarro neologismo, il “nonluogo”, per designare quegli spazi, come i centri commerciali, le sale d’aspetto e soprattutto gli aeroporti, i quali hanno in comune la prerogativa di non creare relazioni tra la moltitudine di persone che in essi quotidianamente si incrociano. Tali luoghi per l’antropologo francese possiedono una connotazione eminentemente negativa, in quanto sono caratterizzati dall’individualismo, dall’anonimato e dalla provvisorietà. Leggendo “I vagabondi” non sono così sicuro che Olga Tokarczuk condivida fino in fondo la critica della “surmodernità” insita negli studi di Augé. Molte pagine del suo libro sono infatti ambientate proprio negli aeroporti o nelle stazioni della metropolitana, e in questi luoghi, simboli del fascino, per non dire addirittura dell’ossessione, per gli spostamenti e i viaggi, così come nelle impersonali camere d’albergo delle città straniere, la scrittrice polacca si trova perfettamente a proprio agio. Quello della Tokarczuk è una sorta di atipico “invito al viaggio”, inteso non nel senso turistico del termine, bensì in una connotazione esistenziale, wendersiana (mi riferisco a film come “Alice nelle città” o “Nel corso del tempo”), come necessità di muoversi, spostarsi, non mettere radici in nessun posto, in una coazione che non ha come oggetto una meta particolare, una destinazione specifica, ma il movimento stesso, il passaggio cioè da uno stato di inerzia, di stasi a uno stato di continuo cambiamento, gravido di opportunità latenti. In uno dei capitoli più paradigmatici del libro, una adepta di una fantomatica setta di nomadi espone con queste parole la sua filosofia di vita: “Dondola, continua, muoviti. E’ l’unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte. […] Perché tutto ciò che ha un posto fisso su questa terra, ogni nazione, chiesa, governo umano, tutto ciò che ha conservato una forma in questo inferno si mette al suo servizio. Come tutto ciò che è definito, che va da qui a là, che rientra in uno schema, che è inscritto in un registro, numerato, evidenziato, sottoposto a giuramento; tutto ciò che è raccolto, messo in vista, etichettato. Tutto ciò che blocca: case, poltrone, letti, famiglie […] Cresci i tuoi figli, dal momento che li hai partoriti inavvertitamente, e poi parti; seppellisci i genitori, che ti hanno imprudentemente chiamato a esistere, e vai. […] Beato è colui che parte.” La narratrice ricorda un episodio della sua infanzia, quando si era trovata per la prima volta davanti al fiume Oder e, di fronte allo spettacolo di questo gigantesco nastro mobile che scorreva oltre la cornice, fuori del mondo, aveva desiderato di trasformarsi da grande in una delle barche che vedeva navigare sotto i suoi occhi affascinati. Consequenzialmente alla sua fantasia infantile, la Tokarczuk ha scritto un libro che celebra in ogni sua pagina l’instabilità, la precarietà, l’imprevedibilità, fedele all’idea che “è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo”, che “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”. Si snoda così in caotica successione una serie di frenetici e irrequieti spostamenti della protagonista alla volta di luoghi di cui a volte non viene citato neppure il nome. Non sono affatto reportage di viaggio, niente che possa un giorno rientrare in una guida turistica, dal momento che “descrivere significa distruggere”. Le stesse mappe che fanno capolino di quando in quando tra le pagine del libro sembrano piuttosto degli enigmi che degli strumenti per raccapezzarsi, sembrano costruite più per perdersi che per orientarsi, nella convinzione che la salvezza è forse quella di non riconoscere mai il posto in cui ci si trova, per non affezionarsi e scoraggiare così la tentazione di fermarsi e mettere radici.
Anche i racconti che interrompono le riflessioni e gli aneddoti della voce narrante sono caratterizzati da una simile irrequietezza. La moglie che sparisce misteriosamente col figlioletto nell’isola croata dove è in vacanza col marito (in una sorta di versione contemporanea e prosaica di “Picnic a Hanging Rock”), la madre di famiglia che fugge per qualche giorno dalle responsabilità domestiche per sperimentare l’inusuale e inaspettatamente consolante condizione di senza tetto, la figlia del famoso anatomista olandese del Settecento Frederik Ruysch la quale, dopo la vendita della collezione anatomica del padre allo zar di Russia (con quei feti conservati nei barattoli che erano diventati per lei come dei figli), sogna di travestirsi da uomo per imbarcarsi come marinaio e partire alla volta di mari lontani, la sorella di Chopin che porta da Parigi, nascosto sotto la gonna, il cuore del fratello per seppellirlo nella natia Polonia, sono tutti personaggi che, nell’arco di poche, memorabili pagine, esprimono un sottile e misterioso male di vivere, una sorta di degenerazione, di disintegrazione dell’io che forse solo la partenza verso l’ignoto, il precario, il transitorio può aiutare a guarire.
I viaggi raccontati da Olga Tokarczuk non sono solo quelli fisici, da un luogo a un altro, ma sono anche quelli nella memoria (“con l’età la memoria comincia piano piano ad aprire i propri precipizi olografici, tirandone fuori ogni giorno, uno dopo l’altro come nodi su una corda, e poi ogni ora e ogni minuto […] - è come l’estrazione di scheletri antichi dalla sabbia: all’inizio si vede solo un osso, ma il pennello presto ne scoprirà altri, finché verrà portata alla luce un’intera struttura complessa: giunture e articolazioni che sorreggono il corpo del tempo”) e nella mente (le conferenze sulla psicologia di viaggio organizzate negli aeroporti, che ci fanno conoscere stravaganti e inverosimili specializzazioni come la psicoanalisi topografica e la psicoteologia di viaggio), i viaggi nell’aldilà (quieti e sommessi trapassi, come quello del vecchio professore in crociera nelle isole greche) e, soprattutto, i viaggi all’interno del corpo umano. Quest’ultima è forse la parte più curiosa e avvincente de “I vagabondi”. Partendo dalla similitudine tra il corpo umano e il mondo esterno (“come se si stesse risalendo un fiume alla ricerca della fonte, allo stesso modo con il bisturi si sale lungo i vasi sanguigni per trovarne l’inizio”), l’autrice, affascinata dall’anatomia al punto da preferire i musei scientifici, e addirittura le cosiddette “stanze delle meraviglie” e le collezioni di curiosità, ai musei artistici, ci parla di imbalsamazioni, di plastinazioni, di soluzioni chimiche per conservare i preparati organici, di lezioni anatomiche che sembrano uscite da un quadro di Rembrandt. Personaggi inventati, come il dottor Blau (che sogna la plastinazione di tutti gli uomini, perché ogni corpo umano merita di sopravvivere), e personaggi realmente esistiti, come il già citato Frederik Ruysch o Philip Verheyen, lo scopritore del tendine d’Achille (il quale, ossessionato dal dolore “fantasma” che lo affligge inspiegabilmente là dove una volta c’era la sua gamba, amputatagli anni prima per un’infezione, si ostina fino alla sua morte a dissezionare il suo arto, alla ricerca di una verità che non troverà mai), sono tra le figure meglio tratteggiate del romanzo.
“I vagabondi” è un testo strano, eterogeneo, difficile da classificare. E’ un libro di viaggi senza geografia, una sorta di spazio mentale in cui contano le persone più dei luoghi (“la meta dei miei pellegrinaggi è sempre un pellegrino”), in cui aneddoti, meditazioni, curiosità si affastellano in modo apparentemente caotico e anarchicheggiante (in linea con la personalità dell’autrice, che per natura si definisce attratta dall’imperfetto, dall’incompleto e dal difettoso). Non si capisce bene se sia più un romanzo, un diario, una autobiografia, una raccolta di racconti o un saggio. Sarebbe probabilmente piaciuto molto a Calvino per la prospettiva anticonvenzionale, fantasiosa e straordinariamente “leggera” con cui tratta i suoi svariati, apparentemente inconciliabili argomenti (dai racconti alla “Mille e una notte” alle scritte sugli assorbenti igienici, dai programmi televisivi notturni visti nella camera di un hotel ai pellegrinaggi per visitare le sante reliquie). Non nascondo che l’approccio per il lettore, stordito dall’eterogeneità e dalla dispersività di questo ponderoso volume, può essere respingente. Eppure, se si ha la pazienza di arrivare alla fine, si scopre che tutto possiede un suo ordine rigoroso, che tutto segue un coerente filo logico. E’ un po’ come quel gioco enigmistico in cui nella pagina vediamo all’inizio un incomprensibile guazzabuglio di puntini numerati, ma quando poi uniamo questi puntini tra loro viene fuori finalmente un disegno intelligibile di cui prima non riuscivamo neppure a sospettare l’esistenza. Proteiforme e poliedrico, fluido e instabile, “I vagabondi” è anche un libro a suo modo necessario, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui gli spostamenti di milioni di persone da una parte all’altra del pianeta mettono quotidianamente, disperatamente in discussione il concetto stesso di società e di convivenza civile.