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Non scomodate Kafka
Deve aver preso il volo sbagliato, Budai, l’accanito e sfortunato protagonista di questo libro. Certo non si trova a Helsinki dove avrebbe dovuto partecipare a un convegno di linguistica di cui è un eminente esperto. No, Budai si ritrova per un tragico disguido in una città informe e soverchiante, metropoli tentacolare, langhiana, caotica e perpetuamente in moto, come preda di un horror vacui che reclama sempre un pronto riempimento. Senza documenti e senza soldi, tragicamente solo nello spazio distopico della città del futuro, Budai si trova ad affrontare un problema ben più grave, l’incapacità di comprendere e di essere compreso. Nemmeno la sua infinita conoscenza delle lingue, dal greco al latino, dall’ungherese al finnico, dalle lingue romanze alle rune sumeriche, gli consente di decifrare la strana lingua di quella città, i suoni scomposti e infinitamente diversi, nessuno stratagemma lo fa penetrare nella sintassi capricciosa di un idioma che, cocciuto, si oppone alla sua ostinazione. Perché la metropoli di Karinthy è, prima di tutto, intrinsecamente babelica e, come nella più biblica delle costruzioni, l’esito non può che essere la distruzione. Forse solo un corso d’acqua, la promessa del mare, potrà ricondurlo a casa o forse quella strana ascensorista, Epepe, o Tetete, è difficile dirlo, che sembra l’unica disposta a capirlo sul filo fragile dell’amore, ma che, nonostante tutto, appare sempre infinitamente distante.
Karinthy, scrittore e linguista ungherese, scrive un libro ambizioso e lo fa plasmando lo spazio allucinato della narrazione con le inquietudini dittatoriali del novecento, descrivendo una città famelica in cui la sopraffazione è legge, la fretta intransigente, l’architettura sovietica e oppressiva, minacciosa e soffocante. Se Epepe è un libro sull’incomunicabilità, sulla irrevocabile solitudine degli uomini, non meno è una riflessione sull’impotenza della ragione di fronte al gioco al massacro del potere e, nella forma dell’incubo, nella dilatazione spasmodica del tempo impossibile di Budai, prova a tracciare i contorni della deriva della Storia.
Molte le riflessioni, diversi i piani di lettura, da quello morale a quello esistenziale, da quello storico a quello linguistico, ma, alla fine, il romanzo risulta discretamente poco riuscito. La scrittura si sfianca infinitamente in descrizioni pleonastiche, che forse vogliono rendere l’idea dell’insensatezza in cui il personaggio si muove, ma che, alla fine, distraggono la trama dal punto di arrivo e tutto si perde, senza uno scarto, senza una presa di posizione, senza un svolta che coroni e dia senso all’insieme. Lo stile di Karinthy finisce per essere ridondante, inconsistente e non riesce a sostanziare una storia che aveva tutte le migliori premesse. Il libro, in realtà, è stato apprezzato da più parti, ne hanno scritto entusiasti, tra gli altri, Citati e Carrère, ma entrambi, focalizzandosi su singoli aspetti, certamente positivi, trascurano la resa globale di un libro che finisce per essere poco più che nella media. Eppure uno di quei libri che, una volta letti, non si potrebbe fare a meno di pubblicare. Mistero della fede, davvero.
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