Dettagli Recensione
Cacciatore e musicista
Non ha paura Bernhard del male radicale e radicato, quello che germina dalla famiglia, dai genitori, e nemmeno ha paura della morte, se è vero che sa trattarla con tanta condiscendenza, con un sorriso tanto sardonico da deformarsi nel grottesco. E più di tutto, non ha paura di osare la scrittura, di spingerla fino agli estremi delle sue potenzialità, un creativo delle parole, anzi, un musicista del linguaggio. Ora Erinni furiosa, ora scanzonato comico, segue ossessivamente le tracce del massacro, una caccia alla preda che, assediata da ogni lato, viene scorticata da ogni ipocrisia, da ogni tentativo di difesa. E allora la realtà, caleidoiscopicamente smembrata, appare in una nuova luce, fredda, altera, tagliente perché il male esiste e a volte solo un falò immane, il fuoco catartico della purificazione, sia esso di calzini e berretti rossi, o di una intera nazione, può perdonare la realtà.
Goethe muore - ma, traducendo ironicamente quello “schtirbt” accentuato, si potrebbe dire “Goethe tira la cuoia” - è una raccolta di quattro racconti. Nel primo, che dà il titolo al libro, Goethe morente chiede di incontrare Wittgenstein, l’unico che ritiene più in alto di lui. Lo stesso Wittgenstein cui Bernhard sarà legato per tutta la vita, il filosofo occamiano della purezza del linguaggio, della sospensione della parola, perché nella filosofia pura, e non nel linguaggio, Goethe riconosce la salvezza. La stessa filosofia in cui si rifugia il quarantaduenne protagonista del secondo racconto per sfuggire al controllo feroce dei suoi genitori, che lo incolpano del loro fallimento, ma qui il libro della salvezza è quello di Montaigne. Figli come capri espiatori sono anche quelli del terzo racconto, il più riuscito, il più asfissiante, in un crescendo parossistico di ripetizioni che, come in una sinfonia fatale, accompagna il lettore verso il falò di quegli indumenti rossi che hanno rappresentato il giogo della schiavitù filiale. E infine, nel quarto e ultimo racconto, è tutta l’Austria, l’odiata Austria di Bernhard, a bruciare, la sua ipocrisia, il suo vuoto immorale.
Bernhard affascina e non annoia perché ha uno stile inconfondibile, fatto di frasi ripetute, incisi, digressioni, punti volanti, perché mai come qui il respiro della lettura, il ritmo del linguaggio, è esso stesso opera letteraria. In poche pagine credo di aver contato più di venti volte la parola “esiziale” e ancora più volte l’espressione “calze e berretti rossi”. Come nelle tragedie classiche, Bernhard crea un coro di parole, poche, ma amplificatissime, che si arrampicano in una climax senza speranza. Detto questo, solo il terzo dei racconti mi è sembrato davvero memorabile, gli altri tre sono buoni, ma non raggiungono livelli particolari. Inoltre a volte l’attenzione per lo stile soverchia il contenuto del libro, che in realtà tocca temi delicatissimi, ma, per così dire, li accerchia e descrive senza penetrarli, lasciandoli in una sostanziale, nebulosa, inconsistenza. Forse non il libro più adatto per cominciare con Bernhard, ma sicuramente una bella lettura.
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Commenti
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Grazie:)
Questo libro mi incuriosiva. Ora apprendo che è costituito da 4 racconti. Non amando il genere 'racconto' , il mio interesse è assai diminuito.
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