Dettagli Recensione
I demoni di Zafon agli esordi
E’ sempre brutto stroncare un libro. Ma la c.d. “Trilogia della nebbia” di Zafon comprende un libro peggiore dell’altro e, forse, quello più salvabile è “Il palazzo della mezzanotte” che, quantomeno, ti porta a Calcutta con una banda di ragazzini, costituitisi in una raffazzonata compagnia in lotta contro un demone tornato dal passato per riprendere ciò che crede sia suo.
Il brutto è che nella trilogia c’è sempre un demone, spesso poco credibile, che si palesa subito e non ti lascia nemmeno il tempo di immaginare o supporre che ci sia dell’altro. Diverso è il capolavoro “L’ombra del vento” ma qui, davvero, siamo appena sul livello della sufficienza.
In breve: un uomo in fuga consegna due gemelli alla loro anziana nonna; entrambi sanno che un feroce personaggio è sulle loro tracce, così la nonna affida il maschietto Ben ad un orfanotrofio e tiene con sé la femminuccia, Sheere. Separarli vuol dire proteggerli. Ma 16 anni dopo, quando Ben potrà lasciare la struttura che lo ha accolto e fatto crescere, il passato tornerà a farsi vivo (o “non-morto”, direi!). Di nuovo, i gemelli saranno in pericolo ma la società segreta costituitasi nell’orfanotrofio cercherà in ogni modo di salvarli… e salvarsi. Tra indagini al catasto, nelle vecchie prigioni, in biblioteca, nella stazione bruciata di tanto tempo fa, il destino verrà inesorabilmente incontro, purtroppo senza colpi di scena.
Aspetti piacevoli: rispetto al solito, tutti i ragazzini della Chowbar Society sono ugualmente importanti e ognuno avrà un suo ruolo nello svolgimento del racconto. Lo stile è abbastanza scorrevole, in alcune parti ironico, in altre l’atmosfera diventa quasi piacevolmente gotica. L’idea di dar voce a un personaggio (minore) per raccontare la trama è tutto sommato una variante, che aggiunge qualcosa al grigiore imperante. Un paio di pagine salgono di livello, per il resto siamo al puro “esercizio di stile”.
Aspetti negativi: c’è il solito demone coi superpoteri, sembra una copia (poco) meglio riuscita del “Principe della nebbia”, il romanzo precedente. La descrizione della stazione non è sempre chiara, tra un cunicolo e l’altro ci si perde un po’ anche noi lettori. Calcutta non mi ha entusiasmato granché, altri autori l’hanno descritta meglio, portandoci veramente nelle sue atmosfere polverose, tra anime derelitte: qui, stare a Calcutta o in un sobborgo londinese avrebbe fatto poca differenza.
Zafon aveva intenzione di scrivere libri per ragazzi, della serie “piccoli brividi”: in questo c’è riuscito, ma all’occhio di un adulto, abituato a ben altro, il libro è leggero nello stile e nei contenuti, talmente evanescente di significato che non si vede l’ora di arrivare allo (scontato) epilogo.