Dettagli Recensione
Dresda
«Quello che voleva dire, naturalmente, era che ci saranno sempre guerre, che impedire una guerra è facile come fermare un ghiacciaio. E lo credo anch’io. E poi, anche se le guerre non ci fossero come i ghiacciai, ci sarebbe sempre la morte, la morte pura e semplice» p. 13
La guerra, la prigionia. Dresda. Come dimenticare? Come convivere con quel senso di vuoto e quel senso di distruzione e morte che i nostri occhi hanno vissuto e provato mentre il nostro cuore sanguinava insieme a quelle ormai rovine rase al suolo dagli alleati? E ancora, come raccontarlo quel che si è provato? Come descrivere quel che ci ha distrutto nell’animo? Come riuscire a focalizzare completamente l’attenzione e ad estrapolare la totalità di un avvenimento che ci ha dilaniati dentro? Come tornare alla vita normale, come ricominciare a vivere dopo che il conflitto armato è giunto al suo termine?
Tanti interrogativi, tanti i tentativi, tanti gli espedienti che hanno portato alla definizione del protagonista Billy Pilgrim, alter-ego di Vonnegut e bambino inviato in questa crociata per molti, per quasi tutti senza ritorno, che appare e scompare negli abissi dei vari capitoli per poi riaffiorare nella parte finale del testo dove l’intera opera si ricompone nelle sue fila per definire quella che è la morale/non morale insita nel suo contenuto.
A questa scelta iniziale l’autore aggiunge un altro dato di fatto: “così va la vita”. Il passato non può essere cambiato così come il presente e il futuro né la vita stessa perché in realtà, per Billy/Kurt queste dimensioni non esistono. Sono un qualcosa che sempre accadrà a prescindere dal tutto. Questa impossibilità di scegliere e decidere degli avvenimenti perché flusso ininterrotto di elementi che accadono, impediscono allo scrittore di trascriverli e di riportarli in un ordine consequenziale che quindi determina anche i continui salti temporali che portano il lettore a trovarsi, ulteriormente, in tre spazi dimensionali diversi. Il trauma di aver assistito ad un incidente aereo, di aver perso la moglie, di aver toccato la distruzione con mano, di soffrire di allucinazioni, comportano la necessità di creare questa confusione del tempo che scorre a cui si sommano ripetizioni di assunti già scritti. L’uomo non ha forza e non ha potere di interrompere il flusso degli eventi, li subisce passivo e vi si abbandona.
Non stupisce dunque che “Mattatoio n. 5” sia considerato il romanzo antimilitarista per eccellenza, ma badate bene, non lo è nel modo in cui lo si può pensare. Perché nelle sue pagine non troverete l’orrore del bombardamento, della guerra, del sangue che scorre quanto un’autoanalisi umana. Al centro delle vicende vi è un protagonista inadatto, talora ostico per il lettore, incapace di fronteggiare e contrastare un destino che viene considerato un dato immutabile e improcrastinabile.
Ed è proprio questa impostazione narrativa caratterizzata su più dimensioni spazio-temporali ad esser la forza di questo scritto, un volume intelligente, costruito su piccoli mattoni apparentemente scollegati tra loro ma che finiscono con il ricomporsi in un puzzle più grande nelle conclusioni e che ha quale unica pecca, a mio modesto avviso, uno stile che può risultare privo di empatia, privo di quella capacità di accompagnare il conoscitore avvenimento dopo avvenimento. Questi piccoli blocchi, infatti, avvalorati da una penna poco curata e da una serie di ripetizioni e ridondanze (come appunto al continuo ricorso dell’espressione “così è la vita”, che è sì sinonimo di questo flusso inarrestabile di eventi in discesa libera e imperturbabile), sfiancano.
In conclusione, un libro intriso di grande tecnica e con un significativo messaggio ma che riesce a farsi apprezzare soltanto a metà.
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