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Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino
 
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino 2019-03-13 09:58:17 archeomari
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    13 Marzo, 2019
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il mondo è di una tristezza e di una merda totale

Kai Hermann e Horst Rieck scrivono questo romanzo-intervista alla quindicenne Christiane nel 1978 a Berlino, dove era stata chiamare a testimoniare ad un processo. Un documento interessantissimo, una denuncia contro la cecità dell’epoca sulla reale portata della tossicodipendenza tra i giovani.
Un libro che destabilizza per la crudezza delle immagini, la violenza di alcune situazioni, soprattutto perché sono coinvolti dei minorenni e delle minorenni ancora “con l’odore” delle bambole e dei giocattoli.
Si comincia sempre allo stesso modo: alle spalle una situazione familiare disastrosa, con uno o entrambi i genitori completamente assenti o incapaci di gestire situazioni problematiche, di imporsi al figlio o alla figlia, che cerca il confronto e il conforto cel gruppo dei pari.
Christiane dalla georgica campagna amburghese, si trasferisce con la famiglia a Berlino all’età di sei anni e sperimenta da subito la violenza, impara la legge del “muso duro”, del “vince chi picchia più forte”: la bambina accetta subito questo dogma sconvolgente, perché ogni giorno, sulla propria pelle, a casa, il papà ubriaco la picchia a sangue per sfogare la propria frustrazione dovuta al proprio fallimento professionale. Christiane per poter sopravvivere a questo mondo violento e brutale scopre che quelli che contano sono quelli “fighi”, quelli avanti e fa di tutto per farsi accettare dalla leader del gruppo dei ragazzi più ammirati a scuola.

A tredici anni “Avevo già imparato un sacco di cose, non solo la musica che a loro piaceva, ma anche la lingua che parlavano (...) mi ero concentrata sulle frasi che sentivo dire da loro. Per me erano più importanti dei vocaboli inglesi o delle formule matematiche” ( p.47, edizione SuperSaggi Rizzoli, 1980)

Dal libro viene fuori una Berlino senza aree verdi, una città assolutamente non a misura di bambino: i giochi si svolgono tra casermoni, metri e metri di filo spinato, cemento ovunque e si comincia già da bambini a scoprire il piacere di violare cartelli e permessi.
Questo romanzo-verità è un invito a riflettere, a chiedersi il perché i ragazzi, già in tenera età scelgono le strade della droga. Si comincia con un “assaggio”, si continua per sentirsi sballati e fighi e poi ci si ritrova una vita completamente distrutta. Christiane vede morire quasi davanti ai suoi occhi dei suoi compagni del giro: prova a disintossicarsi innumerevoli volte, sopportando l’agonia della “rota” (crisi di astinenza), ma i risultati sono sempre temporanei. Il desiderio di bucarsi supera ogni buon proposito ed anche ogni forma di rispetto, distruggendo la famiglia e anche le amicizie. Per bisogno di procurarsi eroina cade nella fogna della prostituzione, prima facendo più attenzione, scegliendo i clienti e poi, quando la situazione si fa più difficile, cede il suo corpo anche agli stranieri dell’est, gli “zulù”.
Attraverso queste pagine di vita vissuta - sembra assurdo usare questi termini quando si parla di una quindicenne- veniamo a conoscenza dell’orrore della tragedia che segna per sempre chi entra nel vortice dell’eroina.
Toccanti le ultime parole di Atze, primo ragazzo di Christiane, nella sua lettera prima del suicidio per overdose:
“Adesso metto fine alla mia vita, perché un bucomane porta arrabbiature, preoccupazioni, amarezza e disperazione a tutti i parenti e agli amici. (...) fisicamente sei uno zero. Essere bucomani vuol dire essere l’ultima merda (...) “. P. 185-186)
Vecchia storia, quella della droga. Hascisc, eroina, Valium, antidepressivi...tutte sostanze per annullare le preoccupazioni del mondo che ci circonda, annullando noi stessi per primi.
Il finale è aperto, ma sappiamo che Christiane non si è mai completamente liberata della tossicodipendenza.

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