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LA NERA SCHIENA DEL TEMPO
“Domani nella battaglia pensa a me e cada la tua spada senza filo. Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sulla tua anima, che io sia piombo dentro il tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori."
Le citazioni per Javier Marias non sono mai casuali o pretestuose. Quella riportata in apertura, tratta dal “Riccardo III” di Shakespeare (come pure le altre citazioni del libro, dalla scena del film di Laurence Olivier, vista dal protagonista in una notte d'insonnia, in cui i fantasmi visitano il re Riccardo turbandogli il sonno, all'altra pellicola guardata distrattamente senza audio la notte fatale, dall'emblematico titolo di “Ricorda quella notte”), è quintessenziale al tema del romanzo, ovverossia la morte. La morte si presenta, se così si può dire, “in medias res”, fin dalle prime pagine in cui lo sfortunato Victor si vede morire tra le braccia, colta da un improvviso malore, la donna con cui si stava accingendo a trascorrere, approfittando dell'assenza per lavoro del marito, la notte. Di lì in poi è tutto un continuo riflettere del protagonista sull'evento definitivo, da come le morti siano spesso casuali, ridicole e perfino vergognose a come le cose dei morti perdano improvvisamente importanza dopo il loro trapasso, per arrivare infine a quello che è il vero fulcro del romanzo, ossia l'impermanenza. Con la morte “non scompare soltanto chi sono ma anche chi sono stata - pensa Victor, immedesimandosi in Marta, la donna morta -, non soltanto io, ma la mia memoria tutta intera, un tessuto discontinuo e sempre incompiuto e variabile costellato di strappi e allo stesso tempo fabbricato con tanta pazienza e con estrema cura”. Anche se non lo si vuole e si fa di tutto per contrastarlo, tutto tende a sfumare e a dissolversi lentamente, e quel che è peggio è che ciò avviene non soltanto dopo il trapasso, ma addirittura mentre siamo vivi, soggetti all'implacabile, inesorabile opera di distruzione compiuta dal tempo, dai giorni, dalle ore e perfino dai secondi “che sembrano sostenere le cose e in realtà le sopprimono”. Il destino dell'uomo è quello di scomparire, inghiottito dal “rovescio del tempo, la sua nera schiena”, condannato a uno sconfortante senso di irrealtà: “E' intollerabile che le persone che conosciamo si trasformino in passato”. Il pessimismo di Marias è agghiacciante. Se niente rimane, niente dura e niente persiste allora “l'unica soluzione è che tutto finisca e non ci sia niente”. La memoria è come una lapide, in cui alla fine rimangono incisi per sempre soltanto i nomi, le uniche cose che delle persone sono destinate a sopravvivere. E' curioso come Marias compia il tragitto inverso di un altro grande scrittore iberico, José Saramago. Se quest'ultimo, nel romanzo “Tutti i nomi”, riusciva a recuperare l'umanità che si cela dietro ogni anonimo nome, passava cioè dai nomi alle persone, Marias fa l'esatto opposto, passando dalle persone ai nomi.
C'è una qualche soluzione a tutto questo, oppure tutto è destinato a soccombere di fronte al nichilismo più assoluto? Il protagonista Victor, dopo la fatidica notte, non riesce a togliersi dalla mente Marta, nonostante che la conoscesse appena e che fosse riuscito ad eclissarsi dalla sua abitazione senza lasciare tracce della sua visita, libero quindi da ogni colpa e da ogni responsabilità. E' un po' come se fosse caduto vittima di una sorta di impalpabile incantamento (“haunting” lo chiama l'io narrante, quasi ci trovassimo in un “horror movie” pieno di possessioni e di stregonerie). Dopo qualche giorno Victor decide di uscire dall'ombra, partecipa, rimanendo in disparte, ai funerali della donna e inizia a cercare un contatto con i suoi familiari. Non si tratta – si badi bene – di uno scrupolo morale, di un modo per tacitare una coscienza non proprio pulitissima (in fondo ha lasciato nella casa un bimbo di due anni incustodito, senza trovare il coraggio di avvertire qualcuno) e tanto meno di un tentativo di scacciare dalla propria testa l'ossessione che lo perseguita. E' piuttosto un inconscio e tutto sommato improbabile tentativo di contrastare quel processo che ho provato a descrivere più sopra: trasformandosi nel filo segreto che collega la donna morta al suo mondo passato e al suo inespresso futuro, Victor si fa l'involontario medium tra i vivi e i morti, garante della continuità della memoria condannata fatalmente a disgregarsi. Palesandosi di fronte al marito, alla sorella e al padre, raccontando la sua versione della storia, Victor cerca di riempire i buchi neri, di colmare i vuoti e di trasformare in qualche modo una fine assurda e inspiegabile in destino. Questa è l'unica cosa che l'uomo può fare per contrastare il tempo, nella cui morsa “tutto si perde” e che è “sdrucciolevole come la neve compatta”: raccontare e dare il proprio minuscolo, insignificante contributo alla verità, giacché un fatto “ non succede del tutto finché non lo si dice e non lo si sa”. Nella lunga e potente scena conclusiva Victor e Dean (il vedovo), vittime dei loro reciproci incantamenti, non hanno altra soluzione che raccontarsi reciprocamente i loro segreti, nella speranza di rendere più leggero il loro fardello condividendolo con l'altro. Se qualche pagina prima Victor aveva pensato, similmente a Jean-Paul Sartre, che “gli altri non finiscono mai”, nelle frasi conclusive si intravede la flebile possibilità di una condivisione, di una fratellanza nel dolore che forse è l'unica ancora di salvezza contro l'indeterminatezza e la mancanza di senso della vita.
Se raccontare è un'attività così importante (attraverso il racconto un fatto non appartiene più al solo narratore, ma diventa patrimonio comune con l'ascoltatore e con il pubblico in genere), se il linguaggio è in fin dei conti, ben più del contatto fisico, l'unica possibilità per interagire con gli altri e dare una qualche forma di permanenza ai nostri ricordi, si capisce come le parole rivestano un ruolo assolutamente preminente. E' del tutto normale quindi che le parole siano il tratto distintivo di “Domani nella battaglia pensa a me”, sublimate in uno stile del tutto personale e inconfondibile. Se le continue divagazioni, le insistite digressioni possono ricordare Saramago, e l'ambiguità ed enigmaticità della trama (quella Madrid notturna e fantasmatica, dove non è possibile neppure sciogliere il dubbio se la prostituta che si è ingaggiata per un paio d'ore di piacere sia o meno la propria ex moglie Celia) fanno venire in mente il Paul Auster della “Trilogia di New York”, è invece del tutto di Marias il particolarissimo uso delle ripetizioni. Meditazioni e reminiscenze, ma anche frasi di film o drammi teatrali, ritornano ossessivamente in altri momenti del libro, come un refrain, a cucire tra loro eventi diversi, passato e presente, realtà e ricordo, narratore e uditore, per realizzare una potente e sconvolgente riflessione sulla vita e sulla morte, e sugli ineffabili legami che il tempo instaura tra loro. Il linguaggio di Marias è sottilmente simbolico, parla di realtà concrete e circoscritte (un decesso prosaico, una convocazione nella dimora di un importante personaggio, una giornata all'ippodromo), le quali diventano ben presto meri pretesti per parlare di problematiche molto più ampie. Così il mestiere del protagonista, che è un “ghost writer”, rimanda ai fantasmi che assillano la sua esistenza, il dualismo tra la prostituta e la ex moglie al tema pirandelliano dell'indeterminatezza dell'identità (qual è la versione veritiera di ognuno di noi, quale tra le tante spacciate a noi stessi e agli altri nel corso della nostra vita?) e in fin dei conti della verità (solo noi stessi la custodiamo, ma solo fino alla nostra morte, dopodiché non rimane più nulla di veramente attendibile, ammesso che la nostra verità, alterata da segreti, omissioni e bugie, effettivamente lo sia). La stessa trama è ambigua: parte come una specie di giallo, ma diventa strada facendo tutt'altro (romanzo psicologico? romanzo filosofico?). Marias sfugge ad ogni definizione, disattende le normali aspettative del lettore (e per questo può risultare anche abbastanza ostico al primo approccio), ma la sua scrittura colta e problematica sa inoltrarsi come pochi altri fin dentro ai più profondi meandri dell'animo umano, per giungere a raccontare con ineffabile esattezza l'angosciante labilità dell'io.
“E quanto poco rimane di ogni individuo nel tempo inutile come la neve scivolosa, di quanto poco rimane traccia, e di quel poco tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo: mentre viaggiamo verso il nostro sfumare lentamente per transitare soltanto alla schiena o al rovescio di quel tempo.”
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Dalla tua dettagliata presentazione, però, continuo a pensare che lo scrittore mi sia poco congeniale. Al momento, attendo.