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Hanna mi chiamava ragazzo
Romanzo ricco di contrasti, caratterizzato da un timbro asciutto e struggente, da una prosa erudita e schietta. E’ uno di quei libri che restano attaccati addosso e continuano a parlarti anche dopo averne sospeso la lettura, e i molteplici interrogativi di respiro universale che apre ne fanno un’opera vicina al capolavoro.
Si tratta di questioni che non hanno una risposta definitiva, a meno di non trincerarsi dietro dogmi religiosi o principi etici, ponendo un netto confine tra ciò che è moralmente (e socialmente) accettabile e ciò che non lo è.
Quel dolore sordo e costante, quel senso inesorabile di perdita che da un certo punto in poi pervade il romanzo si trasmette al lettore in tutta la sua potenza, tanto più forte quanto più l’autore cerca di razionalizzarne l’essenza. Ma la ragione ha poco a che fare con gli eventi narrati, mentre è la passione ad avere un ruolo chiave. Passione cieca, si direbbe, persino degenerata secondo il punto di vista di alcuni, ma autentica come la gioia più pura, come il dolore più profondo.
“Hanna mi chiamava ragazzo”: Hanna, trentaseienne che seduce il quindicenne Michael, plagiandolo, forse, di sicuro marchiandolo a vita.
Hanna dal passato oscuro, ex criminale nazista, Hanna dal buon profumo di fresco, suo unico, vero, tormentato amore.
Sospendiamo il giudizio, ignoriamo i preconcetti, cerchiamo di comprendere: perché a volte la sofferenza redime, ed è l’amore ad aprire la strada.
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