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Le colpe degli intellettuali
Nell’ultima notte della sua vita, un uomo torturato dalla propria coscienza, quel giovane invecchiato che lo tormenta e gli impedisce di morire in pace, racconta la propria vita per difendersi da quelle accuse ingiuriose che non riconosce come proprie. Si apre con un paradosso questo ultimo, rabbioso e denso romanzo di Bolano: ricordare il negativo della realtà, per suggerire, nel vuoto “viscerale, intestinale” della trama, il grido di sgomento, desolato, di chi non ha saputo opposti alla storia, pur avendone tutte le capacità. Notturno cileno è l’arringa solitaria di un avvocato che difende un assassino e che, obliquo, ne rivela tutte le responsabilità. Perché questo canto del cigno, così duro, così pastoso, così vibrante, è una denuncia senza diritto di replica della codardia e dell’indifferenza degli intellettuali cileni sotto Pinochet. Bolano, che pure non appoggiò mai il regime, avverte una certa “vergogna”, rispetto a se stesso, alla sua nazione, al mondo, la vergogna di chi si sente lacerato dall’ingiustizia, dai crimini, dal puro arbitrio del potere e sembra vivere il romanzo come un gigantesco punto interrogativo: come è stato possibile che nessuno abbia parlato, da dove origina tanta connivenza, tanta collusione, quando le persone muoiono e tutti lo sanno?
Notturno Cileno è un libro sulla responsabilità civile di quegli intellettuali che nulla fanno della propria cultura, se non ostacolano o denunciano il male estremo. Bolano ci ricorda che l’intelligenza non serve a nulla, è davvero vuota, se non accompagnata da un profondo senso morale, ci ricorda che la poesia ha senso solo se sa cambiare le persone, solo se gli uomini riescono a vivere quel bello e su quel bello costruire le proprie azioni. Penso a filosofi grandissimi, come Heidegger, che pure appoggiarono, per lungo tempo, il nazismo: a che serve la realtà di carta del pensiero se poi il mondo brucia nel consenso di chi più di tutti dovrebbe capire?
Bolano sceglie una tecnica difficile, quella del soliloquio lungo oltre cento pagine, una scrittura tanto appassionata, tanto necessaria, da violentare la punteggiatura, che scompare per lunghi periodi e annulla i confini del testo: le immagini si sovrappongono e mescolano, in uno sguardo che non è più quello cubista de La Pista di Ghiaccio, suo primo romanzo, ma surreale, sinestetico, visionario, con la consueta grazia delle immagini, con la meravigliosa capacità di creare scene poetiche e stranianti. Così il narratore insegna il comunismo a Pinochet, gli recita Leopardi, così assiste al dialogo cristallino di Neruda con la luna o si perde tra i falchi dei parroci europeri, indaffaratissimi nella lotta contro gli escrementi dei piccioni che consumano le cattedrali. Certo Bolano rischia, scrive sul punto di equilibrio scivoloso fra la bellezza e il patetico, fra quello che qualcuno definirebbe indie e la commozione latinoamericana per la vita., in una tensione miracolosa, quasi perfetta. A volte, specie nella parte centrale, sembra quasi che la trama di scardini e il libro precipiti, ma Bolano sa recuperare, ricucire, ricomporre la matassa in un quadro che alla fine lascia la consueta, magica malinconia, di cui lui è capace.
Chiudo con un pensiero di Gaetano Salvemini, storico e politico italiano, che all’avvento del Fascismo ebbe a dire: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialit?. L'imparzialit? è un sogno, la probità è un dovere.”
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