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COLPA ED ESPIAZIONE
Attenzione: La recensione contiene spoiler
“Come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. E’ la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. E’ sempre stato un compito impossibile.”
“Espiazione” è un libro-labirinto, una costruzione a scatole cinesi, che si può leggere, in virtù della moltiplicazione dei punti di vista (scrittore reale-McEwan e scrittore immaginario-Briony, personaggi del romanzo del primo e personaggi del fantomatico romanzo del secondo), attraverso vari livelli. Prima di scoprire nell’epilogo che le pagine che abbiamo letto sono la creazione letteraria di Briony Tallis, uno dei personaggi della storia stessa, quest’ultima si sviluppa come un romanzo canonico, sia pur strutturato in tre parti assai diverse l’una dalle altre. Nella prima siamo introdotti in una ammaliante scrittura polifonica, che attraverso le voci dei vari personaggi (Briony appunto, Cecilia, Robbie, Emily) fa procedere la vicenda per cerchi concentrici verso un nucleo di tensioni esplosive e di comportamenti gravidi di conseguenze morali. Questa dinamica è amplificata dalla diversa comprensione che gli attori hanno dei vari accadimenti, che McEwan sfrutta con abilità, mirando “freudianamente” a far emergere l’inconscio sepolto dei personaggi, piuttosto che a sottolineare il ruolo del caso nella loro vita: ad esempio, la scena in cui Cecilia si spoglia per andare a recuperare i due pezzi del vaso rotto finiti nella fontana assume per la piccola Briony che vi ha assistito casualmente dalla finestra una connotazione del tutto diversa; e così il ricordo del giorno in cui Robbie era entrato scalzo a casa dei Tallis è interpretato da Cecilia come una provocazione del ragazzo il quale, tendendo a rimarcare le diverse posizioni sociali, avrebbe inteso mettere a disagio la coetanea, mentre in realtà Robbie si era solo vergognato di avere i calzini bucati. Con questo procedimento teso a cogliere da ogni minimo avvenimento le varie rifrazioni individuali, McEwan è in grado di costruire un piccolo capolavoro di sottigliezza psicologica. Che dire poi della tensione montante, del climax sempre rinviato, della sensazione (amplificata dal caldo asfissiante gravido di inquietudine ma anche di inimmaginabile sensualità) che qualcosa sia lì lì per esplodere, anche se la concatenazione inesorabile degli eventi porta a un esito, nei tempi e nelle modalità, inatteso e sorprendente: l’ingiusta accusa di stupro fatta cadere dalla testimone oculare Briony sulle spalle dell’incolpevole Robbie, che da questo episodio avrà la vita definitivamente cambiata (il carcere e l’ignominia al posto di un radioso futuro da medico)? Tutto quanto converge in questo nucleo drammatico, come il centro di un big bang destinato a fare sentire i suoi effetti nei decenni a venire. McEwan è davvero bravo nel costruire questo thriller psicologico con gli elementi tipici di un dramma borghese, come forse solo Henry James e Virginia Woolf sono stati in grado di fare. Esempio di questo acume e di questa profondità di scrittura è la protagonista Briony, ottimamente caratterizzata fin dalle prime pagine (il suo culto maniacale per l’ordine, la sua passione per i segreti, il suo desiderio di un mondo armonioso e ben organizzato, la sua sensibilità intensa e morbosa, la sua ansia di assumere “un ruolo nel dramma della vita”). La sua testimonianza contro Robbie risponde in effetti a una serie concomitante di fattori caratteristici di una personalità estremamente originale: la volontà di mettere il sigillo a quella che ormai considera la sua storia, la simmetrica e deduttiva evidenza con cui chiude – pur senza riscontri oggettivi – un teorema che lei nella sua testa ha già costruito (ossia che Robbie è un maniaco violento e pericoloso), l’istinto di protezione nei confronti di qualcuno apparentemente più debole di lei (Lola), l’esibizionismo, la voglia di compiacere e non deludere le aspettative degli altri, e – soprattutto – il desiderio prepotente di affermare la propria voglia di maturità.
Nella seconda parte assistiamo a un salto in avanti di cinque anni. Robbie Turner si trova ora in Francia, nel bel mezzo della ritirata dell’esercito britannico verso Dunquerque, ferito e con l’unico scopo di sopravvivere alle incursioni aeree dei tedeschi per raggiungere l’amata Cecilia, l’unica persona che ha creduto alla sua innocenza e che, abbandonando la famiglia e intessendo una paziente e affettuosa relazione epistolare con il protagonista in carcere, ha rappresentato per lui l’unica ragione di vita (anzi “per vivere” come rimarca lei in una lettera). Il clima narrativo è completamente mutato, per le ovvie circostanze ambientali: dalla fine ed elaborata introspezione psicologica della parte precedente si passa a una cruda e oggettiva fenomenologia bellica, in cui c’è a malapena il tempo di registrare gli avvenimenti che si susseguono incalzanti. McEwan ovviamente sfrutta la parentesi bellica per ricostruire gli eventi intercorsi successivamente alla condanna di Robbie per stupro, ma in più sa far trapelare in controluce una profonda riflessione sul concetto di colpa. In uno scenario in cui il male non è più individuale, ma metafisico, ontologico, colpa e innocenza scolorano fin quasi a perdere di senso. Uccidere o lasciar morire annegano in una indifferenza obbligata, resa quasi necessaria per riuscire a sopravvivere all’orrore, e in questo arduo contesto rimanere uomini (risuona qui fatalmente il titolo del famoso romanzo di Primo Levi sui campi di sterminio nazisti) diventa la cosa più ardua.
Nella terza parte del romanzo ritroviamo Briony, ormai diciottenne, anche se inopinatamente ha scelto la carriera di infermiera al posto di quella più ovvia – viste le sue inclinazioni letterarie – di studentessa a Cambridge. Questa scelta, anche se non viene detto esplicitamente, sembra una sorta di punizione che la ragazza si è inflitta per il crimine da lei commesso cinque anni prima. Esso riemerge in continuazione nella sua vita, come dimostra un illuminante episodio occorsole in ospedale: un giovane soldato francese che ha perso la memoria la scambia per una ragazza del suo paese natale, e approfittando di un equivoco linguistico (“sorella” al posto di “caposala”) le chiede se sua sorella è ancora innamorata del ragazzo con cui stava prima della guerra, e alla domanda di come si chiamasse Briony non può fare a meno di rispondere “Robbie”. Anche il romanzo inviato da Briony a una casa editrice verte sull’episodio della fontana da lei intravisto dalla finestra della villa. Nella lettera in cui le viene motivato il rifiuto di pubblicarlo, il redattore – ignorandone l’origine autobiografica, ipotizza che la ragazza del romanzo avrebbe potuto forse intromettersi con conseguenze disastrose nella vita della coppia, e in queste parole, che adombrano senza volerlo una colpevole reticenza, Briony vi legge la propria colpa ingigantita dalla vigliaccheria di non volerla riconoscere esplicitamente come tale. L’espiazione del titolo è perciò il tentativo di ristabilire la verità oggettiva attraverso la ricostruzione meticolosa e fedele, nei fatti, nei tempi e nelle motivazioni psicologiche, di quanto avvenuto nel passato. In questo senso il castigo assomiglia di più a una complessa autoanalisi, a un improbo lavoro di scavo nel subconscio, piuttosto che a una soluzione dostojeskianamente radicale e definitiva.
L’epilogo del romanzo, con un funambolico rovesciamento di prospettive, complica in extremis la comprensione. Innanzitutto veniamo a sapere che l’autore di quanto letto finora è la stessa Briony, ormai alle soglie degli ottanta anni. In secondo luogo che in questo mezzo secolo abbondante Briony ha scritto diverse versioni della stessa storia. In terzo luogo, c’è la sconvolgente ammissione di Briony che Robbie e Cecilia non si sono mai più incontrati (come invece era narrato nella terza parte), ma sono morti nel corso della guerra (Robbie di setticemia, Cecilia vittima dei bombardamenti tedeschi su Londra). Qui si entra in un ambito decisamente meta-letterario, e la conclusione è per più versi sconcertante. L’opera letteraria (che si tratti di romanzo o di diario) può essere sì considerata una forma di ristabilimento della verità, ma non ha la forza di cambiare le cose: Lola e Marshall sopravvivono ricchi e famosi e soprattutto impuniti alle vittime del loro crimine, e il risarcimento concesso a Cecilia e Robbie da Briony (che fa coronare la loro infelice storia d’amore con un commovente happy end) ha il sapore della beffa, soprattutto se si pensa a quanto esso assomiglia, fatte salve le differenze dovute alla maturazione artistica della protagonista nel corso della sua vita, al dolciastro e moraleggiante finale delle “Disavventure di Arabella”, ossia della commedia teatrale scritta dalla tredicenne ragazzina in apertura di romanzo (“Ecco, inizia l’amore, il dolore svanisce”) e allestita a sorpresa sessantaquattro anni dopo dai parenti di Briony accorsi nella vecchia tenuta dei Tallis, adesso trasformata in un hotel di lusso, per festeggiare il suo genetliaco.
Resta in fondo a tutto l’agghiacciante consapevolezza che certi atti possono riverberare i loro effetti per tutto il resto della vita, e che l’intera esistenza non basta neppure per rimediare ai loro guasti. La vita di un uomo allora forse altro non è se non un continuo scandagliare, ricostruire e rielaborare ricordi, in un laborioso e incessante processo di giustificazione che ha come unica sede il tribunale della propria coscienza e come unico obiettivo quello di poter giungere all’appuntamento con la propria morte con un fatidico e liberatorio atto di auto-assoluzione.
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Commenti
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Davvero????
Ho letto" Bambini nel tempo" e i racconti della raccolta "L'inventore di sogni": non mi sono piaciuti.
Non commento la recensione che abbandono per non incorrere nell'anticipazione.
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(Per altro credo di aver visto la versione cinematografica anche se un po' distrattamente)