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Viaggio nel profondo dell’animo umano
“E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne.”
Non è stato un caso, ma una scelta quasi obbligata riportare questa fra le tante riflessioni dell’autore di Vita e destino, un aspetto non trascurabile di un’opera impegnata e impegnativa sul tema del bene e del male, trattato ricorrendo a un grandioso affresco storico in cui sono stati dipinti alcuni anni della seconda guerra mondiale, l’ultima del secolo scorso, caratterizzato dall’ascesa e caduta di due grandi totalitarismi, dall’orrore dei lager e dei gulag.
Ma c’è qualcosa che va anche oltre questo orrore ed è una Stalingrado dilaniata dalla guerra in cui il confine fra la vita e la morte è labile, tanto che i vivi sembrano ombre di quello che sarà il loro imminente futuro, un corpo esanime che è già tanto se è rimasto intero. La descrizione di questa lunga e quasi interminabile battaglia è una prova di bravura che rasenta l’inverosimile, tanto che sembra di udire, leggendo, il crepitio delle mitragliatrici, il sibilo dei proiettili in arrivo e infine lo scoppio degli stessi. Se questo è il palcoscenico la recita ha per oggetto le due grandi tragedie di quel secolo, il nazismo e lo stalinismo, mostrate in modo non tecnicistico, ma ricorrendo all’indubbio potere della letteratura.
Nella miriade di personaggi che affollano quest’opera, alcuni realmente esistiti, altri inventati, c’è un comune denominatore, nel senso che ognuno di loro, o per essere carnefice, o per essere vittima, oppure per restare indifferente, è parte indispensabile dell’assurdità dei totalitarismi, in cui l’ideologia distorta soffoca sempre la verità, in cui si tende a rendere gli esseri umani delle copie precise, capaci di interpretare l’orrore di ogni giorno sia attivamente che passivamente, e al riguardo mi vengono in mente certi processi staliniani in cui gli imputati, quasi sempre accusati ingiustamente, si autoaccusavano quasi con letizia, desiderosi di dare il loro contributo, se pur passivo, al continuo falò dell’orrore. E’ impossibile parlare dei protagonisti di questo libro, tanti sono da sembrare essi stessi il libro, ma è appunto attraverso le loro storie, vere e proprie testimonianze, che Grossman dà voce al suo pensiero. Tuttavia, un’eccezione la faccio, se non altro perché è in grado di spiegare meglio di me i concetti di questo romanzo; mi riferisco al bolscevico Mostovskoj e soprattutto al colloquio notturno in un lager nazista in cui il comandante, un SS di nome Liss, gli dice: “ .../ Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscervi in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? /...”. E’ la simmetria del male, perché il male è male, qualunque sia l’ideologia alla sua base. Sono tentato di andare oltre, di parlare più compiutamente di altri protagonisti di questo romanzo che accanto a pagine che fanno rabbrividire ne presenta altre a dir poco struggenti, come per esempio la lettera, l’ultima, al figlio di una madre ebrea rinchiusa in un ghetto e in procinto di affrontare il viaggio verso la morte. Fra tante verità, sommessamente pronunciate, fra le quali colpisce come una stilettata la bontà di chi non ha nulla, il suo altruismo insospettabile, c’è una vena poetica capace di far palpitare nel cuore del lettore il sentimento materno.
Su tutto, però, fiorisce l’anelito per la libertà, il desiderio di ognuno di avere un destino non imposto da altri, tanto più forte, quanto più è assente, quella libertà che la violenza sopprime per tacere la verità. Non a caso Grossman scrive. “ .../ Il desiderio congenito di libertà non può essere amputato; lo si può soffocare, ma non distruggere. Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se vi rinunciasse, cesserebbe di esistere. Il fondamento del totalitarismo è la violenza: esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata. L’uomo non rinuncia mai volontariamente alla libertà. E questa conclusione è il faro della nostra epoca, un faro acceso su tutto il nostro futuro. /...”.
Il romanzo è ovviamente molto bello, probabilmente uno dei capolavori dello scorso secolo; gli nuoce solo una certa discontinuità dovuta a una lunghezza non indifferente, ma cosa possono essere 750 pagine di fronte al piacere di scoprire che la lettura è un viaggio nel più profondo dell’animo umano?
Se ne potrà uscire sconvolti, oppure rapiti da un senso di serenità, ma in ogni caso c’è la convinzione che questo viaggio doveva essere fatto e che noi che l’abbiamo compiuto siamo un po’ cambiati, ora guardiamo la vita con occhi diversi.
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Questo poderoso testo (sì, forse troppo poderoso) non lascia assolutamente indifferente il lettore, dandogli qualcosa che rimane dentro.
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