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UN THRILLER FILOSOFICO
C’è nella lettura de “Le braci” un non so che di avvincente, di ammaliante, e nel contempo un sentimento opposto di frustrazione, di attese insoddisfatte, di promesse non mantenute, quasi come se l’ossimoro fosse il segno distintivo di questo romanzo dallo stile ottocentesco ma scritto nel 1940, dall’impianto teatrale ma in cui dei tre protagonisti uno è defunto ormai da decenni e il secondo rimane in silenzio per tutto il tempo, lasciando al terzo il compito di intessere un finto dialogo che in realtà è un lunghissimo monologo-confessione. E dunque qual è la chiave di lettura di questo libro strano e misterioso, quale il motivo del suo originalissimo fascino? Conviene partire dalla cornice della storia. Due vecchi amici di infanzia e di gioventù, legati in passato da un rapporto così esclusivo e totalizzante da ricordare quello leggendario tra Castore e Polluce, si ritrovano nello sperduto castello del primo per un’ultima serata insieme, ben quarantuno anni dopo che il secondo era sparito senza preavviso e senza spiegazioni per andare a vivere lontanissimo dalla sua patria, ai Tropici. Il primo, un facoltoso generale in pensione di nome Heinrich, aspetta da anni questa occasione per portare a termine una vendetta a lungo meditata (ma senza spargimento di sangue: una rivoltella appare per un istante, ma viene prontamente rinchiusa in un cassetto) e riesumare un segreto il cui solo depositario è l’amico Konrad, anche lui un ex ufficiale ma con aspirazioni più umanistiche che militari. L’intreccio viene sapientemente impostato dall’autore come un thriller: quarantuno anni prima è avvenuto qualcosa che ha determinato una frattura insanabile in una esistenza fino ad allora apparentemente armoniosa e che ha fatto precipitare gli eventi verso esiti imprevedibilmente drammatici. Piano piano, centellinati pagina dopo pagina nel corso di un interminabile faccia a faccia a lume di candela, emergono dal passato i dettagli: c’è una battuta di caccia alle prime luci dell’alba in cui Heinrich ha l’intuizione che l’amico sia sul punto di ucciderlo sparandogli alle spalle, c’è la sconcertante scoperta della improvvisa partenza di Konrad, c’è lo strano comportamento della moglie di Heinrich (Krisztina) che lascia intravedere un rapporto segreto e non propriamente platonico tra lei e Konrad. Intorno a questo nucleo di eventi che si sviluppa in poche ore si dipana una implacabile ricerca di ragioni e di motivazioni, nel presupposto che i fatti non possano esaurire la complessità di quanto è accaduto. Se di thriller si può parlare, quindi, è solo in una accezione meramente psicologica. La verità da scoprire non è infatti il tradimento della moglie o il mancato omicidio dell’amico, che Heinrich dà per scontati, ma le ragioni sottostanti, le cause profonde e sotterranee, le intenzioni mai rivelate.
Ma è qui che l’originale thriller di Marai vira e prende sorprendentemente un’altra direzione: infatti, dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, come in un processo, ha rievocato i fatti principali, rammentato le circostanze accessorie e dettagliato le tesi accusatorie, Heinrich si accinge finalmente, dopo più di cento pagine, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, inopinatamente, si accomiata dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, lasciando intatto il suo segreto. E’ comprensibile lo sconcerto del lettore: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, e di cui si possono immaginare le difficoltà con cui ha attraversato una Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale per consegnare all’amico (perché altrimenti sarebbe venuto fino a lì?) la sua interpretazione autentica e definitiva, ecco che tutto implausibilmente svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca. E’ a questo punto evidente che il senso del libro va cercato altrove, in una direzione più astratta e metafisica. In questione non è più la verità di Heinrich, Konrad e Krisztina, ma la Verità tout court, o meglio la possibilità stessa di accedere a una qualche verità assoluta. L’enigmatico finale de “Le braci” mi sembra che risponda a questo quesito filosofico in maniera estremamente scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo, l’attestazione di innocenza che lo assolve, ancorché fuori tempo massimo, quando ormai non serve più a nulla, nel processo che la vita ha intentato contro di lui. E’ per questo che “Le braci” si sviluppa nella forma di un lunghissimo monologo (dalla parte introduttiva lo stacca anche un diverso uso dei tempi verbali nelle poche parti in cui è usata la terza persona dello scrittore – il presente anziché il passato remoto): esso non è tanto (o non è solo) un processo intentato da Heinrich all’amico fedifrago e traditore per conoscere una qualche verità (in fondo “tutto accade sempre per il motivo e nel modo esatto in cui è stato possibile che accadesse”, questa è l’unica tautologica verità possibile), bensì un processo intentato principalmente a se stesso, per scoprire la colpa recondita, il peccato originale che lo ha fatto sopravvivere a Krisztina, la quale è stata invece redenta dalla morte (“Chiunque sopravviva a qualcuno commette un tradimento”, afferma il protagonista, e quindi è – kafkianamente – colpevole). Ed è per questo, anche, che Heinrich accoglie il rifiuto di Konrad a rispondergli con indifferenza, anzi quasi con soddisfazione. Se l’eventualità dell’incontro con l’amico era l’unica ragione che lo avesse tenuto in vita, ora che esso si è avverato Heinrich può finalmente morire e, a sua volta, discolparsi per l’eternità. Lo stesso destino di Marai, suicidatosi con un colpo di pistola nel 1989 e solo successivamente riscoperto dalla critica la quale, dopo un immeritato oblio, lo ha gratificato di una solida gloria postuma, sembra beffardamente avallare questa mia tesi.
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A distanza di anni i ricordi non sono precisissimi, ma la scia di profumo è inconfondibile. Mi ritrovo in quello che dici in conclusione della tua analisi, ma con una sfumatura diversa: in quella notte a mio parere Heinrich compie una sorta di catarsi, si rende conto di quanto ha coltivato questa attesa, quanto ha impregnato ogni instante della sua vita in funzione di questo attimo e poi si rende conto che le parole, i gesti, i fatti sono inutili, anzi rischiano di immiserire il suo sentimento. Heinrich si purifica nel momento in cui, dopo il lungo soliloquio, capisce quanto infinitamente intenso è il suo sentimento a fronte della piccolezza, della miseria di qualsiasi spiegazione possibile.
E hai assolutamente ragione sul fatto che si presterebbe magnificamente ad un adattamento teatrale.
La cosa che più mi è rimasta impressa è stata la sua filosofia sulla "legittimità" del tradimento quando esso avviene per amore. L'amore sembra essere un motivo sacro che prevale sul matrimonio e sull'amicizia ed è tutelato in qualche modo a essere soddisfatto essendo il più importante sentimento. E quest'idea è molto destabilizzante e contraria al buon senso e alla condotta leale verso un marito o amico per cui mi ha messo un po' in crisi.
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Non sono però d'accordo sulla visione pessimistica da te riscontrata. Nel senso che il testo chiude con una riappacificazione del protagonista con se stesso, coi propri fantasmi, come se il lungo incontro con l'amico-avversario fosse stato un percorso psicoanalitico (in fondo , a suo modo, lo è stato). Pertanto, il ritratto tolto ricompare al proprio posto sul muro, e lui trova conforto fra le braccia della vecchissima governante, come un bambino consolato : lei gli fa il Segno della Croce, lui le dà un bacio : "come tutti i baci umani, anche questo (...) è la risposta a una domanda che non è possibile affidare alle parole".