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UNA DISPERATA FARSA SUDAMERICANA
“Adesso era dentro la trappola e non riusciva a darle un nome, non riusciva a capire che aveva viaggiato, fatto progetti, sorrisi, mosse astute e pazienti, solo per caderci dentro, per trovare la quiete in un ultimo rifugio assurdo e senza speranza”
Larsen, alias Raccattacadaveri, il protagonista de “Il cantiere” e del successivo, omonimo romanzo di Juan Carlos Onetti, mi ricorda vagamente l'eroe di un'altra saga della letteratura sudamericana, quella di Maqroll il Gabbiere. In Larsen e in Maqroll ho ritrovato lo stesso ineluttabile, fatalistico, soffocante senso di sconfitta e di fallimento. Si può anzi affermare che Larsen sia un Maqroll più vecchio, meschino e disincantato: laddove il personaggio di Alvaro Mutis è instancabilmente mosso da un incoercibile ancorché velleitario e donchisciottesco idealismo, da una inesauribile sete di avventure e da una autentica curiosità nei confronti della vita, quello di Onetti è consapevole di essere giunto al termine della corsa, in un crocevia fatale dell'esistenza in cui non si intravede più alcun futuro, ma tutto ha l'aria di essere già stato compiuto e deciso in un lontano e irrevocabile passato. Quando, dopo un'assenza di cinque anni, ritorna a Santa Maria, la “città maledetta” da cui era stato esiliato con disonore per via di una storia di prostituzione, Larsen è chiaramente corroso nel profondo dell'animo, spaurito e “in apparenza domo”, nonostante la sua andatura impettita e dondolante (con i tacchi sbattuti come “per far risuonare la sfida dei suoi passi, deciso a non lasciarsi sconfiggere, senza sapere cosa gli restava da difendere”) cerchi di trasmettere una opposta sensazione di spavalda sicumera. Quando l'anziano Petrus, il signorotto del luogo, gli offre la direzione generale del suo cantiere, Larsen la accetta come se fosse l'ultima, estrema opportunità che la vita gli riserva per prendersi una rivincita sulle sue trascorse sfortune e dare “un senso agli anni morti”. Il cantiere in realtà è da anni in completo stato di abbandono e le vaghe promesse di Petrus circa un'imminente ripresa dell'attività sono poco più che chimere cui non crede ormai più nessuno, nemmeno la coppia di funzionari che, come due fantasmi, continua svogliatamente a presidiare gli uffici deserti, polverosi e pieni di ragnatele, dove il vento entra dalle finestre prive di vetri per scompigliare le vecchie pratiche abbandonate un po' ovunque, e i capannoni in cui strumenti ormai arrugginiti e inservibili giacciono come un anacronistico cimitero industriale. L'atmosfera di sfacelo e di decadenza del cantiere si rivela così ben presto una trappola in cui Larsen viene catturato non come se avesse imprudentemente messo il piede in una tagliola, ma come se stesse sprofondando lentamente, inesorabilmente nelle sabbie mobili. Persino le condizioni atmosferiche sembrano essere impregnate da questo senso di disfacimento e di rovina: la pioggia cade incessantemente, riempiendo di pozzanghere e di fango le strade sconnesse, il gelo invernale penetra pungente fin dentro le ossa, e anche la luce del giorno è “una luce grigia ed estenuante, una luce che arrivava vinta dopo aver attraversato gigantesche nubi d'acqua e freddo”. Con irreprensibile puntiglio e senso del dovere, Larsen si presenta comunque in ufficio tutti i giorni alle nove in punto e passa le otto ore successive a sfogliare vecchi incartamenti che raccontano storie ormai dimenticate di imbarcazioni probabilmente scomparse da tempo immemore. Larsen razionalmente si rende conto che quello che fa è inutile e senza senso, che per il cantiere non ci può essere alcuna possibilità di salvezza, che il suo impiego (per il quale non nutre nemmeno più la speranza di essere pagato) è una farsa grottesca, ma egli nondimeno, contro ogni evidenza pratica, sceglie di recitarla, questa farsa, aggrappandosi all'utopistica illusione che vi sia in serbo, per quanto improbabile, una sorta di palingenesi finale, perché al di fuori di essa c'è solo la disperazione, la solitudine, la sconfitta e la morte. Sembra quasi di assistere a una pièce del teatro dell'assurdo di Pinter o di Ionesco, in cui il cantiere rappresenta un mondo fittizio e autoreferenziale, uno scenario di cartapesta contrapposto al mondo reale di Santa Maria, il quale appare a Larsen, nel corso delle sue sempre più rade visite alla cittadina, alla stregua di una dimensione aliena (e alienante) da cui fuggire per rifugiarsi nell'insensato ma confortevole inganno a cui ha scelto di credere. E' curioso come Larsen e gli altri emblematici personaggi oscillino tra una chiaroveggente consapevolezza del fatto che il loro non è altro che un gioco illusorio e mendace, che nessun deus ex machina interverrà per garantire un qualche salvifico lieto fine, e il bisogno contrapposto di continuare comunque a giocare e a sostenere, costi quel che costi, la parte loro assegnata dal destino in questa rappresentazione. La loro paura è solamente quella che qualcuno decida improvvisamente di smettere di giocare, di scendere per così dire dalla giostra, facendo definitivamente cadere il velo della finzione e rompere in tal modo l'incantesimo (cosa che nel finale si avvererà con un eclatante eppur scontato e prevedibile suicidio). Alle volte capita a Larsen di aprire gli occhi e di sospettare di colpo, con uno stupore infastidito ed eccitato insieme, di essere “l'unico uomo vivo in un mondo popolato di fantasmi”. In questo universo ambiguamente kafkiano (al Kafka del “Castello” mi ha fatto pensare soprattutto il sogno di Larsen di poter entrare un giorno nella villa di Petrus, cui egli si dedica con tenacia e costanza ma che è destinato miseramente a fallire, in quanto l'uomo non andrà mai oltre il bersò nel giardino e la camera da letto della domestica) qualsiasi aspirazione, qualsiasi progetto, perfino la seduzione esercitata, da esperto uomo di mondo quale ritiene di essere, nei confronti delle tre archetipiche donne del romanzo, sono solo riti rassegnati, stanchi e nostalgici, come cose giunte fuori tempo massimo che rimandano alle ambizioni e alle speranze di un passato che è ormai solo un ricordo, così lontano da un presente in cui è ormai ben poco ciò che è rimasto e che si può tentare di salvare. Il destino di Larsen, cui egli si abbandona con spossata arrendevolezza (al punto che dall'unica opportunità di agire veramente che gli si presenta, in occasione delle doglie della moglie di Galvez, egli fugge a gambe levate), è fatalmente quello “di non esistere, di trasformare la propria solitudine in assenza” e – ça va sans dire – nella morte (senza neppure bisogno dell'intervento della rivoltella che Larsen tiene in una fondina sotto l'ascella e che per tutto il romanzo aleggia vanamente come uno spettro, contraddicendo il famoso detto di Cechov che se c'è una pistola in scena prima o poi sparerà).
Questo complesso e suggestivo materiale narrativo è trasferito da Onetti sulla pagina con una scrittura di grande, impareggiabile fascino. Lo stile dello scrittore uruguagio è limpido, meticoloso e dettagliato; ogni gesto, ogni espressione, ogni oggetto viene presentato con una profusione di aggettivi che aiutano a mettere a fuoco, ognuno un po' di più, ognuno un po' meglio, quanto si vuole descrivere (mi piace pensare a Onetti come a un pittore che, dopo due pennellate, si allontani dalla tela per osservarla meglio, e poi decida di aggiungere una terza pennellata per ottenere l’effetto cromatico desiderato), a volte correndo addirittura il rischio, calcolato ovviamente, di contraddirsi ossimoricamente, con esiti sorprendentemente poetici (quando ad esempio si legge che Larsen “avrebbe preferito, per quello che stava per succedere, una data antica, giovane” viene in mente il Pascoli de “L'aquilone”). Pur nella indiscutibile semplicità e nella estrema leggibilità della sua prosa, Onetti inanella frasi avvolgenti, sinuose, riconoscibilissime nel loro voler costantemente proporre un senso nuovo, inedito, trasversale alle cose: così le strade fangose di Puerto Astillero sono “frammentate dalle promesse di luce dei pali nuovi di zecca dei futuri lampioni”; i vecchi mobili del cantiere, “sconfitti dall'uso e dalle tarme”, sono “ansiosi di esibire la loro natura di legna da ardere”; “la sfumatura arcaica della pioggia aveva iniziato a risuonare con buffonesca intransigenza”; e così via. L'effetto è quello di ottenere un paesaggio indubbiamente oggettivo e concreto, ma ricco al tempo stesso di risonanze oniriche e quasi surreali. Dal momento che prima ho accennato alla pittura, confesso che a me il mondo descritto da Onetti ha fatto venire in mente i dipinti di Giorgio De Chirico (dechirichiano è indubbiamente “l'edificio grigio, cubico, eccessivo” del cantiere), in cui le prospettive nette e i volumi ben definiti lasciano trasparire echi di metafisica inquietudine. Così ne “Il cantiere” implacabili lampi di ambiguità squarciano la cortina del reale: basti pensare alle facce che circondano Larsen, descritte minuziosamente (soprattutto le bocche) come se fossero maschere grottesche di una insensata recita che forse solo la morte è destinata a interrompere. L'opera di Onetti, in apparenza così circostanziata e trasparente, raggiunge in tal modo valenze inaspettatamente, potentemente metaforiche, laddove il cantiere assurge a simbolo della vita stessa, dove spesso si finge di trovare un senso anche dove il senso semplicemente non c'è, e si continua a lavorare, ad amarsi, a procreare, per non cedere definitivamente alla esiziale tentazione del nulla; e soprattutto a emblema della fede, vista come un inevitabile ma illusorio punto di approdo, capace di resistere tetragonamente ad ogni dubbio ed evidenza contrari, in cui ci si costringe a chiudere gli occhi non già per la paura di guardare, ma per il terrore di scoprire, aprendoli, che non è rimasto più nulla da vedere.