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Io sono Maugin, il grande Emile Maugin! Emile!
Quando sentiamo parlare di George Simenon immediatamente il nome che ci sovviene alla mente è quello del commissario Jules Amédée François Maigret. E come potrebbe essere diversamente viste le innumerevoli trasposizioni su pellicola e visto e considerato che ad oggi si contano un totale di settantacinque romanzi – scritti tra il 1930 e il 1972 – con questo personaggio quale protagonista? Eppure, in verità, la produzione di Simenon è così vasta da toccare talmente tante tematiche e da veder creati talmente tanti eroi (che si muovono nello spazio, nel tempo, nei ruoli), che nonostante la sua morte occorsa nel 1989, a tutt’oggi, continuano ad essere riproposti vecchi e nuovi scritti il cui successo è assicurato.
Fra le tante idee e fra i tanti uomini nati dalla sua immaginazione, vi è lui: Émile Maugin, il signor Maugin o semplicemente Émile, il grande attore dalla corporatura massiccia, la faccia larga, i lineamenti da imperatore romano, i grandi occhi, quella smorfia particolare che al tempo stesso fa pensare a un mastino ringhioso e a un bambino infelice, i modi goffi e maldestri, il temperamento autoritario e con al posto del ventricolo sinistro «una specie di pera molle e avvizzita»! Biguet, il medico a cui si rivolge e con cui l’opera si apre, è chiaro ed inequivocabile nella sua sentenza di condanna: «Maugin, lei mi ha detto poco fa che ha cinquantanove anni. Ma il cuore che avevo davanti era quello di un settantacinquenne». L’unico modo che questo eclettico protagonista ha per continuare a vivere è quello di essere prudente, limitando gli eccessi, evitando una vita frenetica, avendo riguardi. Ma come può, lui, il grande Maugin, limitare gli eccessi, evitare una vita frenetica, avere riguardi quando la sua vita è stata interamente improntata a darsi agli eccessi, condurre una vita frenetica e non avere riguardi? Come può, lui il più richiesto, il più famoso interprete di teatro e cinema, rinunciare al cognac, a quei due canonici bicchieri di vino rosso (mai bianco, mai!), alle donne e al sesso libero coniugale e non, al suo recitare e alla sua fama? Non può, non può!
Tuttavia, Maugin inizia ad essere stanco. Stanco «da morire. Stanco di essere uomo. Stanco di reggersi in piedi. Stanco di vedere e sentire individui come Cadot, e di doversene per giunta fare carico», tanto che il ricordo dimenticato di quelle “persiane verdi” riaffiora incessantemente nella sua psiche. Il senso di colpa lo attanaglia. Ha inizio il processo. Un processo che ha luogo interamente nella sua mente e dove lui, l’imputato, è chiamato a difendersi da un’accusa implacabile, un giudice irremovibile, testimoni irreprensibili dei suoi misfatti e persone offese costituitesi parti civili. Che fare, che fare! “Io non ho colpe”, si sente affermare nella sua testa. Poi, ancora, alla memoria della sua esistenza che con la metafora del processo rivive, si aggiunge la paura, il terrore di morire da solo. In macchina, per strada, in un caffè, in barca, in una villa irraggiungibile, ma di fatto in totale solitudine. Senza la sua ventiduenne giovanissima seconda (o terza) moglie Alice, senza la piccola Baba, senza Jouve, senza alcuno che possa ricordarlo, sedersi al suo capezzale, accompagnarlo nel trapasso.
Ed è tramite queste udienze che con sempre maggiore frequenza hanno luogo nel suo io che Maugin si auto-analizza per ritrovare l’origine della sua colpa, comprendere dove ha sbagliato e perché. Che abbia desiderato troppo? Che abbia scelto una meta sbagliata? Che si sia accanito a voler essere “Maugin, sempre più Maugin, un Maugin via via più importante”? Se avesse spiegato perché si era così comportato, gli avrebbero creduto? Lo avrebbero capito? Il suo errore era stato scappare? Era quella la sua mancanza? Suo compito sarebbe stato quello di restare invece che di fuggire da tutto e tutti, se stesso compreso? Oppure, più semplicemente, cercava un qualcosa che non esiste come un attore mediocre che teme di sbagliare la battuta?
Con “Le persiane verdi” George Simenon dà vita ad un romanzo forte, intenso, ricco di contenuti, dove l’oggetto principale è quello dell’analisi del proprio percorso di vita alla ricerca dei propri errori e dei propri lasciti ai posteri, un viaggio che ha luogo mediante la voce di questo sessantenne di cui già conosciamo le sorti mala cui personalità e la cui stratificazione non lasciano indifferenti, anzi. Maugin è un personaggio grosso, possente, mastodontico, non tanto per la asserita corporatura fisica quanto per le caratteristiche peculiari di cui lo scrittore lo ha armato. Émile si ama, si odia, si compatisce, si disapprova, si consola, perché con il suo essere riempie tutto quel in cui si trova e tutto quel che tocca.
Non stupisce, quindi, che si sia pensato che detto eroe sia stato ispirato a Raimu, Micheal Simon, W.C. Fields o Charlie Chaplin, i più grandi attori dell’epoca del novelliere, ma badate bene, non è così. Perché «Maugin non è né il tale né il talaltro. È Maugin, punto e basta, ha pregi e difetti che appartengono solo a lui e di cui io sono l’unico responsabile». E Simenon, come il lettore, non può non tenere e amare a questa figura perfettamente scolpita, riuscita e dirompente.
«Ci sono giornate così, in cui tutto è immobile, tutto sembra eterno, oppure inesistente. Sì, in fondo sarebbe molto meglio: inesistente!»
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