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STORIA TRAGICOMICA DI UN'INFANZIA INFELICE
“Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come sono riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora.”
Quello che più colpisce di “Le ceneri di Angela” è la riuscitissima compenetrazione dell’elemento comico in quello tragico. Nel romanzo di McCourt, infatti, morti, disgrazie e disavventure varie si susseguono con implacabile sistematicità, senza peraltro che venga mai meno il tono fondamentalmente umoristico della narrazione. Non si ha – si badi bene – una deformazione grottesca della sofferenza, come potrebbe esserci in un Celine. L’effetto è ottenuto soprattutto grazie alla prospettiva con cui è raccontata la storia, che è quella di un bambino per il quale, ad esempio, il dolore per la morte di una sorella è in qualche modo risarcito dai dolci che può avere l’occasione di mangiare dopo il funerale. Quello che in un adulto sarebbe fastidioso cinismo, in un bimbo appare invece naturale, in quanto il mondo reale convive con la fantasia, l’immaginazione (le visite dell’angelo del settimo scalino in occasione della nascita di un fratellino) e la limitata comprensione della realtà - accentuata dal fatto che gli adulti sono evasivi su ogni argomento e non danno mai risposte – che caratterizza l’infanzia. C’è in McCourt, forse per la natura autobiografica del romanzo, quella abilità mimetica di immedesimarsi alla perfezione con il piccolo protagonista che avevamo già ammirata in “Chiamalo sonno” di Henry Roth. Come in “Chiamalo sonno”, “Le ceneri di Angela” riesce a seguire con credibile precisione psicologica e ricchezza di colore ambientale la crescita del narratore, dalla primissima infanzia a New York all’adolescenza irlandese. L’andamento è prevalentemente aneddotico (nascite, morti, malattie, comunioni, cresime, esperienze scolastiche prima e lavorative poi, ecc.), ma l’effetto generale è estremamente unitario, perché a cementare tutto ci sono degli azzeccati leit motiv, il più importante dei quali sono le peregrinazioni di Angela e dei bambini alla ricerca del padre ubriaco nelle sordide bettole di Limerick, dove l’uomo va a bersi i soldi del sussidio di disoccupazione o della paga. La piaga dell’alcolismo affiora nel romanzo con un taglio volutamente non polemico, eppure esso – come altri fenomeni di profondo disagio sociale (la povertà estrema di chi spesso non ha i soldi per mangiare nulla al di là di un pezzo di pane e di una tazza di tè, eppure è meno povero di chi va a scuola senza scarpe e dorme in tuguri fatiscenti e pericolanti; la tisi, la difterite, il tifo e le altre malattie che decimano la popolazione infantile) – fa da sfondo ineludibile alla rappresentazione cruda e impietosa di un mondo essenzialmente tragico, pur se affrontato senza vittimismi di sorta.
Alla luce di quanto detto sopra, non può meravigliare che la parte più bella del romanzo sia la prima, mentre man mano che il protagonista cresce la narrazione diventa, dal punto di vista temporale, più ellittica e diluita (con l’aumento dell’indipendenza del ragazzo che si accompagna alla graduale perdita di importanza delle figure dei familiari), mentre da quello sentimentale, assistiamo a una minore ingenuità e a una minore naïveté del suo punto di vista. Il tono scivola progressivamente dall’umoristico al patetico (si veda ad esempio la scena in cui Frank va a cercare il padre in tutti i pub della città, ma quando lo trova e scorge il suo sguardo perso in un abisso di dolore non se la sente di riportarlo a casa; o quella in cui la madre andata a chiedere l’assistenza sociale viene crudelmente umiliata davanti a tutti; o ancora quella in cui Frank scopre la madre ridotta a mendicare per strada). Per fortuna McCourt è sufficientemente saggio per resistere alla tentazione di sfruttare il coté lacrimevole e dickensiano della storia, limitandosi ad una umanistica adesione alla sorte di tante vittime della vita. Anzi, in una fase apparentemente interlocutoria del libro, egli riesce a disegnare due indiscutibili capolavori di asciutta e per nulla retorica commozione. Il primo è l’ultimo Natale che il padre passa in famiglia, quel povero pranzo silenzioso alla fine del quale l’uomo si congeda per sempre dai suoi, senza saluti o gesti di commiato; il secondo è la cocente umiliazione subita da Frank ad opera del cugino che ospita in casa la famiglia McCourt, di fronte alla quale la madre sottomessa gira la testa per rimestare le ceneri del caminetto. E’ davvero duro raggiungere la maggiore età per il protagonista, con tutti quei bocconi duri da digerire, quell’alone di povertà ineluttabilmente appiccicato addosso e la solidarietà umana più rara di un miracolo. Il finale aperto alla speranza, con la tanto agognata partenza di Frank per l’America, e l’orgoglio (sia pur segnato da rimorsi e sensi di colpa, amplificati dalla repressiva educazione religiosa ricevuta) di essere sopravvissuto a tutte le terribili avversità occorsegli, sembra legittimare la lettura di “Le ceneri di Angela” anche alla stregua di un racconto di formazione sui generis, a cui McCourt quattro anni dopo ha voluto dare un seguito (“Che paese, l’America”), sfruttando il successo commerciale di un libro meritatamente diventato uno dei maggiori successi editoriali a livello mondiale degli anni novanta.
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