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STORIA DI UN LOSER DI SUCCESSO
“Non è colpa tua, ecco cosa pensi; tu sei nato povero, figlio di contadini miserabili, la tua città natale ti ha respinto perché eri povero, speri di scrivere un libro che ti faccia diventare ricco, così quelli che ti odiavano, laggiù nel Colorado, ti ameranno. Sei un vigliacco, Bandini, tradisci la tua anima e menti davanti a Cristo sofferente. Ecco perché scrivi, ecco perché sarebbe meglio che fossi morto.”
“Chiedi alla polvere” è un romanzo fortemente dicotomico. In primo luogo, è il protagonista stesso, Arturo Bandini, a soffrire di una sorta di sdoppiamento della personalità: aspira a diventare uno scrittore, ma, per buona parte del libro, non riesce a scrivere una sola riga dopo il breve racconto pubblicato tanto tempo prima su una rivista; si professa laico, ma è paralizzato dai sensi di colpa derivanti da una educazione rigidamente religiosa; è un idealista fiero della propria integrità morale, ma non sa resistere alle tentazioni, salvo poi squagliarsela pavidamente quando si arriva al dunque; vuole provare tutte le esperienze della vita, ma per lo più si limita a vagabondare oziosamente per le strade di Los Angeles; ha grandi traguardi nella testa, ma è velleitario e inconcludente, quando ha un po’ di soldi li sperpera senza criterio, e quando non li ha passa il tempo con le mani in mano, soffrendo pateticamente la fame e la povertà; oscilla tra momenti di esaltazione (pochi) e periodi di autocommiserazione (ben più numerosi), tra orgoglio e vittimismo. A fare da spartiacque nel romanzo esistenziale di Arturo Bandini (perché in fondo di un vero e proprio bildungsroman si tratta) è la storia d’amore con Camilla. Sì, perché a partire dal primo fortuito incontro con la ragazza messicana, e dalla repentina e violenta infatuazione per lei, si può finalmente parlare di un prima e di un dopo (non solo in relazione alla sua vita sentimentale, fatta precedentemente solo di sporadici incontri mercenari non consumati, ma anche riguardo al passaggio dalla vita grama e stentata degli esordi nella città forestiera al provvidenziale successo letterario, dalle ultime propaggini dell’adolescenza alla definitiva maturità), anche se il dopo è fatto di una continua alternanza di litigi e di rappacificazioni, di umiliazioni e di propositi di ravvedimento, di separazioni e di ricongiungimenti, come se a fronte di una lampante e inesorabile incompatibilità reciproca vi fosse una altrettanto inevitabile comunanza della sorte. Fante non lascia alcuna speranza di futuro ad Arturo e Camilla, e la tristissima decadenza di quest’ultima, che dall’avvenente “principessa maya” che avevamo conosciuta all’inizio, quando correva nuda sulla spiaggia californiana o sembrava che danzasse sulle sue scalcagnate huarachas tra i tavoli del bar dove lavorava, si trasforma in una figura spettrale, drogata e senza più voglia di vivere, è il motivo principale del passaggio del tono del romanzo dal comico al tragico.
Su quest’ultima dicotomia bisogna spendere qualche parola in più. Se il finale è indubbiamente tragico (Camilla che abbandona Arturo scomparendo nel deserto, il protagonista che getta al vento il suo ultimo libro con la dedica alla ragazza, l’incertezza sul futuro segnata dalla perdita della stanza e dalla decisione di lasciare Los Angeles), è tutto da provare che il resto del romanzo sia comico. Certo, lo scarto irresolubile tra la realtà e lo sguardo ingenuo e candido di Arturo Bandini (che narra in prima persona) genera molti momenti di irresistibile comicità, che sfociano addirittura nel grottesco tout-court dell’episodio del terremoto, quando il giovane si convince che il cataclisma non è altro che l’inesorabile castigo che Dio ha mandato per punirlo della sua trasgressione al sesto comandamento. Ma “Chiedi alla polvere” non è, a ben guardare, né comico né allegro, percorso com’è da tante tristi e patetiche figure di cameriere, di prostitute e di altri losers venuti dal Middle West in California per cercare di fare un po’ di soldi (sono gli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione, quindi suppergiù gli anni di “Furore”) o per dissipare i sudati risparmi di un’intera vita di lavoro. Il mondo di Los Angeles è terribile e spietato: messicani e italo-americani sono degli emarginati, il sogno di Camilla è di avere un cognome americano come Johnson, e la terra del sole e dell’oro è solo una chimera destinata a svanire e a trasformarsi in un doloroso disinganno, di fronte al quale non resta che la mesta accettazione del declino o il ritorno umiliante a casa. Los Angeles è poi essa stessa il simbolo di una umanità assediata dal deserto (quella tra la città e il deserto, tra la civiltà che cerca di sfuggire alla propria morte e la natura indifferente e crudele, è un’altra fondamentale dicotomia presente nel romanzo), e la sabbia portata dal vento che grava come una coltre soffocante e irrespirabile sulla metropoli è il monito permanente di una condizione umana fatta di precarietà e di desolazione.
Il successo che arride ad Arturo, in un mondo così triste dove nulla sembra andare per il verso giusto, appare irreale, quasi l’happy ending di una favola, ma il finale malinconicamente aperto stempera assai il giovanile ottimismo del protagonista, e dietro l’angolo c’è sì la incontenibile voglia di libertà di un Kerouac, ma anche, come contrappeso, il ricordo della fame di un Hamsun, i pochi spiccioli in tasca che non bastano neppure per una birra, l’invidia per il lusso ostentato nelle vetrine, i maldestri tentativi di rientrare in possesso del danaro prestato ai vicini di camera e i meschini stratagemmi per sopravvivere di cui non resta che vergogna e rimorso.