Dettagli Recensione
UNA FAMIGLIA DIABOLICA
“Questo libro è pieno di passione. Pieno di rabbia, comunque. Se comunica qualcosa è proprio l’odio che io sento per questa gente, è il male che essi incarnano, è la distruzione che hanno portato con sé, facendo uso dei loro interessi acquisiti e della loro influenza, dei loro privilegi e del controllo assoluto e paralizzante su tutti i centri di potere; è come ci hanno messo tutti nella condizione di non nuocere, è come si sono divisi fra loro tutto questo maledetto paese.”
Jonathan Coe è sotto ogni riguardo un autore fazioso, per niente politically correct, e - quel che più importa - ci tiene a farlo sapere a tutti, al punto che non si fa fatica ad interpretare il suo romanzo più famoso, “La famiglia Winshaw”, come un virulento atto di accusa contro l’amministrazione Thatcher, la quale – a suo dire – ha condotto la Gran Bretagna, sia economicamente che socialmente, allo sfascio. Eppure, depurato dalla tara delle ideologie radical, delle polemiche politiche per nulla disinteressate e della facinorosa esagerazione di più di un passaggio, il libro di Coe è apprezzabile perché, come accade anche al cinema con i documentari di Michael Moore, esso ci apre gli occhi su situazioni allarmanti che raramente trovano spazio sui mass media o, se lo fanno, rischiano di trovare, per il modo in cui sono presentate, scarso interesse, se non addirittura insofferenza, nel pubblico. L’idea forte di Coe, quella che costituisce uno dei punti di forza del romanzo, consiste nel creare un plot in cui tutti gli aspetti più “politici” (gli affari sporchi del governo con Saddam Hussein, la riduzione della spesa pubblica in campo sanitario, il ruolo non propriamente imparziale dei mezzi di informazione) si riflettono direttamente sull’esistenza dei protagonisti. Così, tanto per fare due esempi, la morte di Fiona, la sfortunata compagna del protagonista Michael Owen, è dovuta alla innegabile perdita di efficienza del sistema sanitario dopo la decisione di “aziendalizzare” gli ospedali, mettendo al centro delle loro priorità la quadratura del bilancio prima che la tutela della salute dei cittadini; e un altro prematuro decesso, quello del padre di Owen, è più o meno direttamente imputabile alle conseguenze fisiche e psicologiche dovute alle adulterazioni alimentari dell’industria di Dorothy e alle truffe finanziarie coperte dalla banca d’affari di Thomas, il tutto con la scontata connivenza del potere politico.
A simboleggiare l’era thatcheriana Coe mette un’intera famiglia, i Winshaw. I sei membri di essa (il finanziere Thomas, il politico Henry, l’industriale Dorothy, il trafficante d’armi Mark, il mercante d’arte Roderick e la giornalista televisiva Hilary) sono altrettante facce metaforiche di un mostro proteiforme che tutto schiaccia e tutto divora, senza lasciare scampo: esso è, di volta in volta, il cinismo politico, l’arrivismo carrieristico, l’avidità di danaro senza scrupoli, l’ambizione di potere che non si arresta di fronte a nulla, tutte espressioni del regresso (morale prima ancora che economico-sociale) dell’epoca. E come aveva fatto Yehoshua ne “Il signor Mani”, anche Coe risale indietro nel tempo, fino a individuare una sorta di peccato originale nella generazione dei padri (Lawrence Winshaw), con i suoi inconfessabili scheletri negli armadi. Tutti i personaggi della vita di Michael Owen risultano alla fine coinvolti nella saga della famiglia Winshaw: il padre anagrafico e quello biologico, Graham, Phoebe, ecc. Il mondo del protagonista diventa così, con lo steso procedimento retorico visto più sopra (il piccolo utilizzato per esprimere il grande) l’emblema stesso della società inglese (o perlomeno delle sue classi medio-basse), impoverita e depredata dei suoi diritti più elementari da una classe dirigente ipocrita, corrotta e mossa solo dall’ideale del dio denaro. Qualcuno potrebbe muovere all’autore l’accusa di avere esagerato con le coincidenze narrative (tutti quanti i personaggi, per quanto decentrati o marginali essi siano, hanno alla fine in qualche modo un ruolo diretto nella vicenda) e di averle rese oltretutto poco plausibili (certe agnizioni clamorose o certi incontri casuali dopo innumerevoli anni sfidano in fatto di inverosimiglianza le commedie del teatro molieriano). Tale accusa può però essere agevolmente ribaltata, e addirittura portata a merito di Coe, con una interpretazione accorta del romanzo, la quale vede nella famiglia Winshaw la pervasività del Male, la sua diffusione nella società come un inarrestabile tumore maligno che, per aumentare a dismisura il proprio potere, la propria influenza e la propria ricchezza, distrugge implacabilmente le cellule sane del corpo sociale e può essere bloccato solo con una drastica amputazione (la morte violenta dei membri della famiglia).
“La famiglia Winshaw” non è comunque solo un romanzo di denuncia politica e di invettiva sociale: essa è anche un’opera dotata di un’innegabile qualità letteraria, che a tratti raggiunge livelli di autentico virtuosismo. Essa infatti appare come un complesso puzzle in cui tutti gli elementi alla fine si incastrano perfettamente gli uni sugli altri, dando retrospettivamente a ciascun episodio un senso che all’inizio pareva non possedere (ad esempio, l’odore di gelsomino che appare insolitamente in due momenti del prologo a Winshaw Towers, e che dopo circa sei lustri si scopre essere stato involontariamente “emanato” dal detective Findlay Onyx), oppure creando nuovi sbocchi narrativi (la maggior parte dei personaggi vicini a Owen risultano, in una maniera – come abbiamo appena visto – persino implausibile, coinvolti nella storia), o ancora facendo convergere episodi apparentemente autonomi e senza alcun reciproco legame in sorprendenti parallelismi narrativi (la cena in occasione del compleanno di Mortimer, il suicidio del marito di Dorothy ed il tentato omicidio di Graham avvengono tutti in concomitanza di altrettanti momenti topici della vita privata del protagonista). Il culmine di questo procedimento a “incastri” si ha nell’ultima parte del romanzo. In essa gli elementi fino ad allora rimasti “non spiegati” trovano tutti la quadratura del cerchio: il padre naturale di Owen, che aleggiava fino ad allora come un impalpabile spettro nell’esistenza di quest’ultimo, risulta alla fine il vero motivo per cui egli è stato scelto da Tabitha per la redazione del libro sulla famiglia, in quanto era stato il compagno di Godfrey nella spedizione aerea in territorio tedesco finita in tragedia per colpa (ma anche questo lo si scopre in extremis) del tradimento di Lawrence Winshaw; e, soprattutto, i tre enigmatici sogni dell’infanzia di Owen si avverano come in fotocopia (Coe usa addirittura le stesse parole dei sogni per descrivere la realtà), gettando una luce insospettata e quasi medianica sul protagonista.
Arriviamo così a parlare dello stile vero e proprio del romanzo. Se la complicata struttura temporale, con le varie epoche abilmente intrecciate spesso in ordine non cronologico (nei numerosi andirivieni temporali capita di scoprire che Phoebe, protagonista del capitolo dedicato a Roddy, era stata conosciuta da Michael otto anni prima a Sheffield in casa di Joan, e che la stessa Joan era stata due decenni prima la sua compagnia di giochi prediletta), fa venire in mente il Vargas Llosa de “La Casa Verde” o il già citato Yehoshua de “Il signor Mani”, l’approccio pseudo-biografico e finto-documentaristico ricorda vagamente il Böll di “Foto di gruppo con signora”. Infatti le fonti le più varie (diari, interviste, rapporti di lavoro, articoli di giornali e riviste, ecc.) si alternano, spesso con effetti volutamente dissonanti (come nel capitolo di Hillary), con gli episodi in presa diretta, conferendo al tutto un originale effetto di pastiche letterario. Gradualmente, dalla saga familiare o dal libro di memorie quale essa è all’inizio, “La famiglia Winshaw” vira decisamente e sorprendentemente verso il thriller, fino a giungere al parossistico e grandguignolesco capitolo conclusivo. Qualcuno potrebbe, apparentemente a ragione, storcere il naso e lamentarsi di questo inopinato cambio di direzione che assomiglia (come ricorda uno dei personaggi) a un horror di terz’ordine. Ma quello che sembra un difetto è invece una soluzione coerente con lo stile eclettico del romanzo e con la sua struttura a scatole cinesi. Ora, a prescindere dalla sua plausibilità realistica, la tragica notte di Winshaw Towers che Owen si trova a vivere è semplicemente, né più né meno, il film con Connor e la Eaton visto all’età di nove anni che lo ha ossessionato per il resto della sua vita. E la stessa notte d’amore con Phoebe, cui l’ultimo colpo di scena del libro toglie ogni possibilità di futuro, oltre a far parte dello stesso film, è anche uno dei tre sogni fatidici della sua infanzia. Lo stesso vale per la morte di Michael, in cui egli si identifica suo malgrado con il tragico destino del suo idolo Gagarin. Owen, che nel corso di tutto il romanzo subisce costantemente gli eventi, diventa perciò una sorta di medium che ha già predetto – o pre-scritto, vista la sua professione di scrittore - l’esito della storia. Questa considerazione porta a una sorprendente ambiguità: il sogno scivola nella realtà e viceversa e la finzione si intreccia con la vita, fino a creare un’atmosfera in cui non si sa più cosa è vero e cosa no, cosa è reale e cosa invece immaginato o sognato. Come la morte di Fiona è descritta alla stregua di una melodrammatica scena di un film, alla quale assiste un Michael diviso nel duplice ruolo di attore e di spettatore, allo stesso modo gli eventi della fatidica notte conferiscono una fortissima sensazione di irrealtà, che ha l’effetto di acuire allo spasimo la tensione e la suspense narrative e contemporaneamente di frapporre un altro schermo, un’ulteriore diaframma, nel già complesso rapporto autore-lettore. Lo stesso passaggio dalla prima alla terza persona nell’ultima parte del romanzo favorisce questa paradossale sensazione di coinvolgimento-distanziazione, anche in virtù del fatto che l’ultimo capitolo è, come si legge nella prefazione al romanzo incompiuto di Owen, scritto dall’editor, e quest’ultimo non esita ad ammettere di avere assecondato, con la predilezione per le scene più macabre e truculente, i gusti più beceri del pubblico. Alla fine, in questo autentico vortice di pirandelliani capovolgimenti di senso, bisogna ammettere che la scommessa di Coe è stata pienamente vinta. Lo scrittore inglese non si è tirato indietro di fronte agli stereotipi più triviali e grossolani, dando però ad essi una giustificazione narrativa che alla fine non si può non condividere. “La famiglia Winshaw” è sicuramente un romanzo furbo, intrigante come un libro della tetralogia di Malaussene, ma ha una sua incontrovertibile consapevolezza artistica. Coe si comporta cioè come un Dostojevskij il quale parlava sì del Bene e del Male, di Dio e di Satana, e dei problemi della società del suo tempo, ma nel contempo deliziava i suoi lettori con avvincenti trame da letteratura d’appendice, con omicidi, processi e sorprendenti colpi di scena.
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