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Il destino non ascolta il deisderio
Mi ero ripromesso di non scrivere altri commenti su Simenon, non perché l’autore non ne meriti, quanto per non ripetermi. Il fascino della sua scrittura è in quella che qualche critico in vena di espressioni forti ha chiamato “pleonastica maieutica dell’ineluttabile” e cioè, per dirla più semplicemente, nel rigore geometrico della trama, nell’inevitabile epilogo cui tutti i suoi personaggi giungono, nel ritmo allo stesso tempo pacato e implacabile con cui le sue storie si consumano. A inquadrarlo bene, ogni romanzo di Simenon porta alle conseguenze estreme le sue premesse perché non c’è libertà dell’autore una volta che le coordinate del testo sono state stabilite. Quando l’autore limita la propria libertà, i personaggi sono liberi di evolvere con coerenza e nessuno, tantomeno Simenon, può cambiarne il destino. Come a dire che il desiderio dell’autore non può nulla contro il futuro della realtà.
Il magnifico protagonista di questo romanzo, di cui Simenon a ragione è orgoglioso, scopre fin da subito, nel buio oppressivo di una radiografia, il torace nudo e freddo contro la macchina, che il suo cuore è avvizzito come una pera marcia. L’atrofia ventricolare fa da controcanto alla robusta figura dell’attore famoso e, pirandellianamente, mette in moto il romanzo. In fondo le persiane verdi sono la storia di una diagnosi, del momento cruciale in cui un male indefinito, una palpitazione vaga, viene battezzata dal clinico con un nome che porta con sé un destino, prognostico e personale. La diagnosi diventa qui l’occasione per ripensare la propria vita, per ripercorrere le tracce della propria carriera, gli affetti perduti e ritrovati, le scelte sbagliate, gli inganni dell’adolescenza, la fame, la gloria, la miseria, l’epica delle piccole cose meschine, il potere vuoto delle posizioni sociali. E così la storia diviene l’occasione per un romanzo di ri-formazione tutto interiore, a ritroso, popolato da fantasmi e sogni che scandiscono gli ultimi granelli della clessidra.
Mai come in questo romanzo Simenon cancella la trama e dissolve l’azione in un’intricata matassa di pensieri, monologhi interiori, impressioni e riflessioni del suo magniloquente fragile protagonista. L’autore sembra davvero muoversi senza ordine nei piani temporali più disparati, l’infanzia, il presente, l’adolescenza, il primo matrimonio, il terzo, il secondo e qualcuno potrebbe non ritrovarsi in tutto questo saliscendi. Eppure alla fine, le tessere del mosaico ritrovano un proprio ordine, ricostruiscono un loro disegno e tratteggiano un capitolo finale tra i più belli dell’autore belga. Non è facile scrivere un romanzo senza azioni e ancora più difficile è farlo senza annoiare. Il merito di Simenon è proprio quello di saper scrivere dell’uomo senza sofisticate astrazioni, ma con un’attenzione commovente per i piccoli gesti, le debolezze e i suoi retropensieri. E con questo libro sembra avvertirci che non c’è libertà senza pace dell’anima e che il destino non sempre ascolta i nostri desideri.
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