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Fuoco pallido
 
Fuoco pallido 2018-11-19 10:18:54 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    19 Novembre, 2018
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UNA LUCIDISSIMA FOLLIA

“”Fuoco pallido” è una scatola a sorpresa, un gioiello di Fabergé, un gioco meccanico, un problema di scacchi, una macchina infernale, una trappola per i critici, un gioco del gatto con il topo, un kit da bricolage. […] Questa opera-centauro di Nabokov, metà poesia, metà prosa, questo tritone degli abissi è una creazione di perfetta bellezza, simmetria, stranezza, originalità e verità morale” (Mary McCarthy, “A bolt from the blue”)

“La vita umana altro non è che una serie di note a piè di pagina apposte a un immane, oscuro capolavoro incompiuto.”

Vladimir Nabokov è uno scrittore straordinario, capace di trasformare in poesia persino una storia di pedofilia (“Lolita”) o di incesto (“Ada o ardore”). In “Fuoco pallido” la poesia diventa addirittura, letteralmente, il centro stesso dell’opera, nella forma di un poema scritto dal fantomatico poeta John Shade e commentato dopo la sua morte improvvisa dal vicino di casa, nonché collega e sedicente amico, il professor Kinbote. Più propriamente, “Fuoco pallido”, il libro che mi accingo a recensire, altro non è che l’esegesi critica, eseguita per mezzo di un meticoloso e dettagliato apparato di note esplicative, dell’omonimo poema. La sua natura di saggio erudito, ad esclusivo appannaggio di una ristretta cerchia di iniziati, sembra apparentemente confermata dalla prefazione, in cui si legge: “Fuoco pallido, poema in distici eroici di novecentonovantanove versi, suddivisi in quattro canti, fu composto da John Francis Shade (nato il 5 luglio 1898 e morto il 21 luglio 1959) durante gli ultimi venti giorni di vita, nella sua abitazione di New Wye, Appalachia, USA. Il manoscritto, quasi per intero una Bella Copia dalla quale è stato fedelmente tratto il presente testo a stampa, consiste di ottanta schede di formato medio; ecc. ecc.” L’esordio è sicuramente tale da scoraggiare e far desistere anche il lettore più benintenzionato al mondo. Eppure, per dissipare subito ogni equivoco, non esito a definire il libro di Nabokov un capolavoro avvincente e virtuosistico, uno straordinario esercizio di stile mai fine a se stesso ma teso a scandagliare tutte le potenzialità creative di un testo letterario, un meta-romanzo talmente ardito da lasciare a bocca aperta perfino il fan più accanito delle più spericolate opere di Italo Calvino. Il fatto è che il serioso e prolisso Kinbote, col suo gergo da intellettuale accademico, non è propriamente quello che sembra, e alcuni improvvisi, impercettibili deragliamenti (come quando, mentre sta affrontando il problema della datazione del manoscritto, afferma inopinatamente: “davanti al mio alloggio attuale c’è un parco divertimenti molto rumoroso”) ce ne offrono una avvisaglia. Quando poi, sempre nella prefazione, egli raccomanda al lettore di leggere per prime le note in appendice al poema e solo in seguito di studiare il poema con il loro sussidio, prima di tornare a rileggere le stesse una terza volta, affermando che “senza queste note il testo di Shade semplicemente non possiede alcuna umana realtà” (“è il commentatore ad avere l’ultima parola”, ipse dixit), capiamo di trovarci di fronte a un clamoroso caso di appropriazione indebita di un’opera d’arte da parte di un curatore il quale, pur attribuendosi le migliori e più oneste intenzioni, ha tutta l’aria di voler millantare la reale paternità dell’opera. Il poema di Shade viene quindi sorprendentemente messo in secondo piano, non solo perché il numero di pagine che esso occupa all’interno del volume è nettamente inferiore a quello delle pletoriche note di Kinbote, ma soprattutto perché queste ultime travisano completamente il senso dei versi del poeta. Laddove questi mette sulla pagina i sentimenti più strazianti di una vita dolorosa e sofferta, segnata dal suicidio di una figlia adolescente, Kinbote commenta con stolida superficialità parlando della propria terra natale (l’immaginaria Zembla, che nella sua irrealtà sembra anticipare l’Anti-Terra del successivo romanzo “Ada o ardore”) e del re che quivi regnava prima di essere detronizzato da una cruenta sollevazione popolare (che riecheggia fatalmente quella Rivoluzione russa che aveva spodestato lo zar quando Nabokov era ancora un ragazzo). Col passare delle pagine l’attendibilità del narratore, che all’inizio del romanzo sembrava indiscutibile, viene messa sempre più in discussione. Per Kinbote, ad esempio, l’amicizia tra lui e Shade era “tenera”, ma veniva “intenzionalmente nascosta sotto una rudezza generata da quella che si può definire dignità del cuore”; in realtà possiamo immaginare che Shade tollerasse a fatica, con malcelato fastidio a stento mascherato da educata urbanità, quel vicino e collega impudente e impiccione, capace di trasformarsi in uno stalker (si leggano a proposito le bellissime pagine sulle finestre della casa di Shade spiate ossessivamente dal protagonista) pur di conquistare l’accesso alla vita intima del famoso poeta. E l’avversione provata per lui dalla moglie di Shade e dai colleghi dell’università (che arrivano perfino ad appellarlo in pubblico “zecca elefantesca, tafano gigante, mostruoso parassita di un genio”) viene imputata da Kinbote, stoltamente convinto di essere nel giusto, a una banale forma di invidia, mentre è più propriamente la naturale reazione nei confronti di una personalità psicotica e monomaniacale, che ricorda un po’ il comportamento di quel pazzo in autostrada il quale, vedendosi venire incontro un gran numero di automobili, si domanda con candido stupore come mai tutti quanti quel giorno stiano guidando contromano. Quando Kinbote lascia capire di essere nientemeno che il re di Zembla in incognito, che un sicario inviato dagli usurpatori del suo regno vuole uccidere, la sua follia appare inoppugnabile. Ciò che può indurre forse alcuni lettori in errore è ciò che, in un libro per certi aspetti simile (“Giro di vite” di Henry James), faceva sì che l’istitutrice protagonista fosse considerata a torto una testimone attendibile degli sconcertanti avvenimenti narrati: il fatto cioè che la storia è raccontata in prima persona da colui che di questa follia è il protagonista e che, in quanto tale, non può vederla coi propri occhi, ma solo riflessa, attraverso sentimenti come fastidio, perplessità e disagio, negli occhi degli altri. In “Fuoco pallido” l’ambiguità che si viene a creare fa sì che non si ha mai l’assoluta certezza di ciò che è vero e ciò che non lo è. Kinbote è il re di Zembla in esilio o solo un volgare mitomane? James Gray (alias Gradus) è un sicario sprovveduto che ha ucciso la persona sbagliata oppure un pazzo scappato dal manicomio? Il poema di Shade è un’opera letteraria autonoma oppure un semplice pretesto narrativo di un unico autore per parlare di tutt’altro? Con funambolica abilità Nabokov confonde le carte in tavola e crea un raffinatissimo labirinto meta-letterario, in cui l’apparente staticità di partenza si trasforma in una prodigiosa sorgente capace di far sgorgare infinite possibilità narrative: “Fuoco pallido” è un saggio critico, ma anche un thriller, un romanzo spionistico, una fiaba nordica, un’opera romantica, con implicazioni ora sentimentali ed erotiche, ora psicanalitiche e persino filosofiche (l’antro dove Kinbote si rifugia per chiosare Shade, “ombra” in inglese, richiama platonici miti). Quando la tragedia della biografia in versi di Shade viene rovesciata dall’improvvido glossatore in farsa grottesca, la scrittura di Nabokov è fenomenale nel passare, nel volgere di poche righe, dallo stile poeticamente intenso di un Quartetto di Eliot allo stile retorico e ampolloso di un enciclopedico imitatore. Che dire poi dell’ingegnoso contrappunto per mezzo del quale la composizione del poema da parte di Shade viene alternata, in una sorta di montaggio parallelo, con la descrizione degli spostamenti di Gradus, il killer partito da Zembla con lo scopo di assassinare il sovrano fuggito all’estero? In un libro partito come una fredda disamina critica ad uso e consumo di studiosi e intellettuali questa spericolata svolta thrilling inserisce un elemento di suspense destinato a durare fino alle ultime pagine. “Fuoco pallido” è un testo tanto geniale quanto difficilmente classificabile: vi si ritrova il gusto del pastiche, l’invenzione più sfrenata (Nabokov arriva persino a creare una lingua “zemblana”), l’amore quasi enigmistico per i giochi di parole, la satira nei confronti dei critici letterari i quali, per commentare un libro, spesso lo violentano e ne tradiscono l’essenza, e soprattutto una costante, insopprimibile ironia, che pervade sottilmente ogni meandro lasciato libero dalla seriosità dell’assunto di partenza. A me “Fuoco pallido” ha ricordato la sfrenata libertà immaginifica di romanzi come “V.” o “L’arcobaleno della gravità”. Non mi sembra pertanto improprio parlare del capolavoro nabokoviano come di un esempio embrionale, sicuramente atipico e sui generis, di letteratura postmoderna. E’ forse solo una coincidenza che il giovane Thomas Pynchon, verso la fine degli anni ’50, sia stato allievo di Nabokov nel suo corso di scrittura creativa alla Cornell University?

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"Ada o ardore" di Vladimir Nabokov
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Un bellissimo commento, complimenti Giulio! Mi trovi totalmente concorde su tutto. Bello sia il poema ma e soprattutto il commento, ha una immaginazione senza limiti. Vorrei leggere Lezioni di letteratura anche, da quei stralci che ho letto Nabokov offre una bella guida su come bisogna leggere un libro e come commentarlo, proprio per evitare di trasformarci nel Kinbote di turno.
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