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Le avventure di uno 007 in pensione
Ad attrarmi verso questo libro è stata indubbiamente la sua copertina. Tranquilli, non nutro nessun interesse morboso per il nazismo, più semplicemente l’immagine della svastica sulla bandiera statunitense mi aveva fatto pensare subito alla “Svastica sul sole” di Philip K. Dick, dove appunto gli Stati Uniti erano una colonia della Germania nazista.
L’acquisto a libri chiuso però si è rivelato una scelta vincente: “Madre notte” ha ben poco a che spartire con il romanzo di Dick, ma regala una storia ricca di emozioni, colpi di scena e spunti di riflessione assolutamente degni, il tutto contornato da una narrazione tanto attenta agli elementi storici da risultare davvero credibile. Tra i maggiori pregi del volume è da annoverare anche l’attualità della storia: il romanzo presenta temi e situazioni capaci di rispecchiare molti elementi della nostra contemporaneità e mi ha stupito scoprire che la prima pubblicazione risale al lontano 1961.
Vonnegut adotta una espediente già sfruttato da altri grandi scrittori, Hawthorne ne “La lettera scarlatta” per fare un esempio, ossia si finge il curatore del suo stesso romanzo, attribuendone la paternità al protagonista, tale Howard W. Campbell jr.
Il signore Campbell è statunitense, ma si trasferisce in Germania da ragazzino, Paese dove rimane anche da adulto, sebbene i suoi genitori rientrino in patria prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Howard è uno scrittore di testi teatrali e proprio il lavoro gli permette di incontrare l’attrice Helga Noth, destinata a diventare sua moglie; nell’ombra l’uomo svolge però tutt’altro genere di attività, essendo una spia al servizio degli Stati Uniti nell’imminente conflitto.
Sarà proprio la sua patria a chiedergli di fingersi un fervente nazista in modo da arrivare alla conduzione di un programma radiofonico di propaganda a mezzo del quale trasmette messaggi in codice oltreoceano. In una missione che porta inevitabilmente alla mente il fantastico “A beautiful mind”, Howard è costretto ad una vita piena di menzogne, anche nei confronti del’amata moglie, nonché ad una condotta che lo farà finire anni dopo nella lista dei criminali nazisti ricercati in tutto il mondo. Come nel film con Russell Crowe, il protagonista viene abbandonato dall’agente Wiltanen, suo contatto con il governo americano e unico a poter garantire sulla sua vera fedeltà, ed è costretto a rifugiarsi in un anonimo monolocale newyorkese dove conduce una vita da eremita per anni.
La storia di Campbell ci viene narrata da lui medesimo: il primo capitolo si apre con l’uomo rinchiuso nel carcere di Gerusalemme, impegnato a scrivere appunto le sue memorie per difendersi nel processo che lo vede imputato per gli anni di discorsi populisti, antisemiti e incitanti alla violenza fatti alla radio. Il protagonista si sofferma sulle storie dei secondini del carcere, prima di avventurarsi nella propria biografia, nella quale non segue peraltro un ordine cronologico, bensì collega vari episodi per associazione di idee.
I capitoli presentano quindi uno schema abbastanza fisso, con il focus su un evento in particolare e, sul finale, una frase viene inserita per creare suspense e dà lo spunto per il soggetto nel nuovo capitolo.
Lo stile è diretto e relativamente semplice (attenzione! non semplicista) è, soprattutto nelle parti dei dialoghi, la prosa è ridotta all’essenziale, limitata sempre e solo al verbo dire, lasciando alle battute il compito di darsi un tono da sé; questa scelta stilistica ben si accorda anche all’attività di autore teatrale del “finto” autore.
Il punto di forza del romanzo è indubbiamente il protagonista. Senza eclissare del tutto gli altri personaggi, Campbell si dimostra il sovrano incontrastato della scena, caratterizzato da un pungente sarcasmo e dotato di uno spirito critico, sia nei confronti di sé stesso sia del mondo che lo circonda. Curioso notare come Howard abbia vissuto delle vere avventure, degne di una spia, solo anni dopo la fine della guerra, mentre la sua missione di copertura fosse in confronto relativamente sicura; geniale invece il concetto dello Stato a due, esposto da lui ma evidentemente proprio di Vonnegut.
Per merito della vita atipica del protagonista, il romanzo introduce direttamente -o accenna soltanto a- diverse figure storiche, in particolare di gerarchi nazisti come Goebbels ed Eichmann. Vonnegut adotta un atteggiamento estremamente razionale, che è un po’ il tratto distintivo di Howard, per trattare tematiche delicate come l’olocausto: riesce ad evitare facili qualunquismi, mostrando gli eventi in un’ottica realista e diretta.
L’argomento della guerra in sé viene elaborato con il medesimo occhio critico ed oggettivo, andando oltre la classica divisione tra alleati buoni e nazifascisti cattivi, ma valutando ogni individuo per le sue azioni e per il suo temperamento. Questa visione disincantata della Storia è ben illustrata già nelle Avvertenze del curatore, dove Vonnegut rievoca un avvenimento tragico -la distruzione di Dresda- da lui vissuto in prima persona quando era arruolato nell’esercito statunitense: il bombardamento operato dai suoi connazionali e dagli inglesi ai danni dei civili tedeschi palesa con evidenza l’impossibilità di scindere tra colpevoli ed innocenti in tempi di guerra. Come suggerisce la “fata turchina” di Howard, aka l’agente Wiltanen, la sola distinzione possibile in tempo di guerra è tra vivi e morti.
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Commenti
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Questo è il mio primo incontro con Vonnegut quindi non so se tutti i suoi libri sono scritti così, ma penso che lo stile potrebbe non piacere a tutti.
Magari potresti leggere l'estratto su Amazon.
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