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Matador nella quinta...
«Forse è vero che non siamo noi a prendere certe decisioni. Crediamo di essere noi a prenderle, invece no. Giriamo e giriamo per il quartiere in cui viviamo. Passiamo davanti ad alcune porte. Quando battiamo sul tasto di un pianoforte e non esce nessun suono, riproviamo, perché dobbiamo. Abbiamo bisogno di sentire qualcosa, e speriamo di non aver commesso un errore» p. 183
Archer Street. I ragazzi Dunbar. In ordine dal più vecchio al più giovane: Matthew, Rory, Henry, Clayton, Thomas. Un assassino, un avvenimento tragico che li ha portati ad essere soli. Un assassino che non è altro che loro padre, che non ha ucciso nessuno nel senso figurativo del termine ma che è come se avesse provocato la morte di qualcuno, e più precisamente dei suoi cari, perché talvolta un abbandono non può che essere considerato che al pari di una morte. Eppure, adesso dopo quasi tre anni di assenza, quest’uomo ha il coraggio di tornare dai suoi figli. Cinque figli di età diverse costretti a crescere prima del tempo, costretti ad essere autosufficienti anche se per loro quelli sarebbero gli anni dello studio, dei primi amori, dei giochi, perché deve costruire un ponte e ha bisogno di loro. Tra tutti soltanto uno deciderà di aiutarlo per intraprendere quel percorso di crescita e di ricostruzione. Perché il ponte che dovranno costruire non è soltanto una struttura in argilla che è stata precedentemente distrutta dalle intemperie e dall’acqua e che loro vogliono ripristinare, ma è anche un ponte metaforico, un ponte che ha lo scopo di ricostruire i rapporti, i legami familiari che si sono interrotti, che sono stati annientati da una perdita incolmabile e ingestibile. E tutto questo avviene tra una casa con degli uomini con particolari abitudini, con animali da affezione di vario genere e tutti con nomi tipicamente mitologici (un gatto, un piccione, un cane, un pesce e un mulo), tre libri e più precisamente l’Iliade, l’Odissea e il Cavatore, e con la presenza di una ragazza dai capelli castani con riflessi ramati che ha una grande passione per le corse di cavalli e che sogna di diventare fantina (anche se questo le costerà molto caro).
Voce narrante dell’opera non è altro che il fratello più grande Matthew che ci racconta i fatti in un perfetto alternarsi di presente e passato, ma protagonista indiscusso è Clay. Clay con il suo dolore, con la sua solitudine, con la sua ricerca, con quel vuoto da colmare, con quei dubbi e quelle domande che non trovano risposta. Perché «si rendeva conto che c’era qualcosa, là fuori, e adesso lo so anch’io… Perché ci stavamo allenando a nostro modo, nel mondo della periferia, per andare incontro a lui. Correvamo e andavamo in cerca di un mulo».
E mediante la voce di Matthew, Zusak plasma, crea, forgia. Offre al lettore una storia di grande contenuto che ben regge il confronto con il passato e che non delude per contenuti e morale. Le tematiche e gli spunti di riflessione ci sono tutti, unica pecca che confesso di aver riscontrato è nell’impianto narrativo adottato. Un impianto narrativo che tende ad essere lento e farraginoso tanto da sfiancare e far perdere di pathos a quella che invece sarebbe una vicenda di grande introspezione. Ciò accade a causa del fatto che avvalendosi di continui flashback, lo scrittore tende a spiegare, spiegare, spiegare ma non a mostrare. Ogni volta che un paragrafo o sotto-capitolo si interrompe per proseguire in un successivo, egli riparte dal principio, tornando indietro in un passato remoto che è fondamentale ai fini dello sviluppo dell’elaborato ma che appesantisce, rallenta la lettura.
«Se c’è una cosa che ho imparato, però, è questa: se è vero che la vita va avanti dopo la morte, prima si svolge nel mondo in cui apparteniamo.» p. 378