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L'IO A PEZZI
“La storia insegna, ma non ha allievi.”
Due sono le parole chiave di “Malina”: incomunicabilità e schizofrenia. La prima deriva dal fatto che i personaggi del libro comunicano per frasi frante e spezzate, suggerendo, accanto all’afasia e all’inadeguatezza del linguaggio (quasi esso fosse un sistema di segni ogni volta da inventare o da ricostruire ex novo), una analoga condizione esistenziale e spirituale; non solo, ma questa situazione si riverbera – dal momento che il romanzo è raccontato in prima persona da un io femminile disturbato e sconnesso che non sa mettere ordine nella propria vita, figuriamoci nella narrazione (come dimostrano le innumerevoli lettere abortite e finite nel cestino della carta straccia) – anche nei confronti del lettore il quale, di fronte all’ostico e apparentemente incoerente monologare della protagonista, che si pacifica e diventa arioso e leggero solo nella dimensione del mito e della favola, si sente disorientato e spaesato non meno del signor Mühlbauer, l’autore di una sconfortante intervista in cui le domande (peraltro ignote nel dettaglio) e le risposte segnano, in maniera quasi paradossale, il massimo della divaricazione.
Per quanto riguarda la schizofrenia, appare subito chiaro, fin dalle prime pagine, che l’io narrante non è del tutto normale: essa non può infatti stare più di due giorni lontano dalla Ungargasse, la strada dove vive nel centro di Vienna; è perennemente in preda a fobie, crisi di panico e idiosincrasie; si sente inerme di fronte ai ricatti sentimentalistici che la spingono ad assecondare un incauto filantropismo terzomondista, e così via. A monte di tutto ciò si intuisce che c’è un tragico passato di malattia e di violenza, e difatti poco alla volta piccoli grumi di verità emergono, quasi sfuggendo alla ostinata reticenza della volontà (in una lettera indirizzata a Lily e poi cestinata la donna accenna ad esempio a qualcosa accaduto alla propria testa). E’ solo nel lunghissimo incubo-delirio della seconda parte, vero e proprio tour de force di letteratura onirico-surreale, che è possibile rintracciare una plausibile spiegazione dello stato psicologico della protagonista e dei traumi che l’hanno devastata. Qui emerge la figura violenta, prevaricatrice e distruttiva di un padre-padrone che ha abusato della figlia e che l’ha irrimediabilmente messa in una condizione di soggezione, di auto-annullamento, di perdita di fiducia in se stessa e negli uomini, di smarrimento di una sana e normale voglia di vivere. E in una serie di quadri sconnessi e mostruosi (degni di un Bergman, di un Kafka e di un Bosch messi insieme) prende forma un orrore agghiacciante e senza limiti, in cui il genitore, sotto le vesti ora di un sadico aguzzino ora di un famelico coccodrillo ora di un lubrico fornicatore, diventa il simbolo tanto di un’istituzione familiare che ha perso ogni valore e in cui vige la cruda legge della sopraffazione e dell’incesto, quanto di un mondo in cui non esistono esseri umani, ma solo vittime e carnefici.
Da questo terribile passato l’io narrante esce letteralmente a pezzi, con una paranoica incapacità di rapportarsi con il mondo che lo circonda e con una vita sentimentale divisa a metà tra due uomini molto diversi tra loro: Ivan e Malina. Il primo, un uomo dalle cui telefonate e dalle cui visite ella dipende quasi morbosamente e a cui affida il sogno impossibile di una felicità utopistica e perfetta, è una figura ingigantita a dismisura da un incontrollabile bisogno di amore, sicuramente sopravvalutata (Ivan ha infatti una propria vita, due bambini piccoli, e probabilmente non ha investito nel rapporto molto più di quel che farebbe un comune amante), e con il suo defilarsi al termine del romanzo è il principale (benché non del tutto colpevole) responsabile del definitivo incrinarsi dell’equilibrio psicologico della donna. Malina invece è l’elemento apollineo e razionale dell’ambiguo triangolo, rassicura la protagonista con la sua presenza costante e silenziosa, è un angelo custode fedele ed efficiente, anche se in lui mancano qualsiasi calore e passionalità. C’è un solo neo in lui: che non è una persona reale. Sul carattere immaginario di Malina la Bachmann non imbastisce un clamoroso colpo di scena, ma semina piccolissimi indizi, poco appariscenti e ad essere sinceri anche poco esaustivi (il fatto che, a differenza che con Ivan, la donna intrecci con Malina conversazioni lunghe e approfondite, quasi fosse sul lettino di uno psicanalista; che Malina compaia sempre e solo quando Ivan se ne è andato via; che non interferisca mai nella vita quotidiana e nelle azioni pratiche della protagonista), facendo intravedere al lettore nelle pagine conclusive l’inaspettato e agghiacciante scenario di uno sdoppiamento di personalità. Come in “Psyco” e in tanti film e romanzi sul “doppio”, il destino del personaggio che dice io è una definitiva scissione che conduce alla follia: mentre la metà femminile scompare dentro una crepa della parete (la quale rimanda a ben altre crepe psicologiche), quella maschile prende il sopravvento, rispondendo alla tardiva telefonata di Ivan che nessuna donna ha mai abitato nell’appartamento e mettendo così un suggello quasi sepolcrale a un’opera difficile, ostica e disturbante, forse più adatta a uno psichiatra che a un lettore normale.
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