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LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DI UNA TELENOVELA
Nelle sue “Lezioni americane” Italo Calvino presentava la leggerezza come una delle virtù letterarie meritevoli di essere salvaguardate e trasmesse ai posteri. La cosa risulta del tutto pertinente a questa recensione, perché come si può definire se non con il termine “leggerezza” quella particolare atmosfera che si respira nella storia d’amore tra il protagonista e la zia Julia, una weltanschaung erotico-matrimoniale spregiudicata, spumeggiante, briosa e sprizzante buonumore e ottimismo da ogni pagina? Calvino non può essere annoverato tra i numi tutelari di Vargas Llosa per il semplice motivo che i due scrittori erano contemporanei e probabilmente non si conoscevano neppure; ma il riferimento a Calvino non è campato in aria, dal momento che “La zia Julia e lo scribacchino” fa venire in mente “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Con quest’ultimo il romanzo di Vargas Llosa ha infatti in comune la struttura frammentaria e policentrica, in quanto vi si alternano, accanto (e quasi in contrapposizione) alla vicenda principale e con il pretesto dei drammi radiofonici di Pedro Camacho e della passione letteraria del protagonista, una moltitudine di spunti narrativi incompiuti, in cui lo scrittore peruviano da una parte lascia andare a briglia sciolta, senza troppe preoccupazioni di fare arte “alta”, la sua fantasia e il suo estro umoristico, dall’altra si diverte a prendere in giro i cliché di quelle che oggi sarebbero le soap opera e le telenovelas televisive e che nel libro sono invece i romanzi radiofonici a puntate. In questi polpettoni melodrammatici, seguiti da un pubblico numeroso, fedele e facilmente incline all’idolatria divistica, i personaggi sono infatti stereotipati e intercambiabili (al punto che tutti quanti, letteralmente e senza eccezione alcuna, hanno cinquant’anni, la fronte spaziosa, il naso aquilino, lo sguardo penetrante e rettitudine e bontà nello spirito), le situazioni inclinano allo scandaloso, al morboso e al patetico, e gli ambienti privilegiano le classi sociali estreme, ossia l’aristocrazia e il sottoproletariato, e trascurano invece i meno interessanti ceti medi.
Non c’è comunque ne “La zia Julia e lo scribacchino”, se non di sfuggita e in misura del tutto marginale, alcun intento di critica sociale e di costume, in quanto l’ambizione di Vargas Llosa è piuttosto quella di disegnare, utilizzando una struttura compositiva quasi sperimentale e una progressione narrativa serrata a dispetto della frammentarietà di cui si diceva prima, un originale ritratto di artista (che potrebbe essere paradossalmente considerato, se si volesse leggere il libro in chiave autobiografica, il mentore stesso dell’autore, allora giovane scrittore alle prime armi), fanatico, stakanovista, religiosamente votato al suo lavoro al punto da essere completamente indifferente tanto alla vita privata quanto al successo pubblico. Pertanto, se all’inizio al lettore sembra di assistere a una parodia dei mezzi di comunicazione di massa (e delle strategie, al tempo stesso subdole e pacchiane, con cui essi catturano l’attenzione del pubblico), più avanti egli si accorge, insieme all’io narrante, che Pedro Camacho è, letteralmente e camaleonticamente, i personaggi che crea ed interpreta, ossia vi si immedesima in maniera inquietante e assoluta (non solo dal punto di vista psicologico, ma anche fisicamente, per mezzo dei travestimenti con cui di volta in volta diventa un dottore, un poliziotto, una psicanalista, ecc.), al punto che la sessuofobia, il bigottismo, la maniacalità, il sadismo, le perversioni (e persino la xenofobia e l’odio parossistico per gli argentini) che pullulano nei suoi radiodrammi non sono il frutto dell’immaginazione artistica (di cui peraltro è privo, così come del senso dell’umorismo) ma l’espressione individualissima di una personalità distorta e malata. Col trascorrere delle pagine, il forsennato ritmo di lavoro dello “scriba” boliviano (che scrive, dirige e interpreta dieci opere contemporaneamente) inizia a mostrare delle crepe, all’inizio impercettibili, poi via via più evidenti e preoccupanti (ad esempio, i personaggi di un racconto passano senza motivazioni plausibili in un altro), segno di una mente che si sta lentamente disgregando. Così i dieci racconti (in realtà ne leggiamo solo nove), intervallati dalla storia pseudo-autobiografica del protagonista che assiste all’arrivo a Lima, al successo e al declino (psichico prima ancora che professionale) di Pedro Camacho, anacronistico asceta della penna, diventano ben presto la mirabile descrizione di una discesa nel gorgo della follia più cupa e autodistruttiva. Gli apocalittici e cataclismatici epiloghi dei romanzi radiofonici, in cui perdono la vita per incendi, terremoti o naufragi, tutti i personaggi inventati da Pedro Camacho, sono le disperate soluzioni estreme cui è costretto a ricorrere questo deus ex machina alla rovescia il quale, incapace di padroneggiare le figure nate dalla sua fantasia e vittima di un colossale e caotico garbuglio, è fatalmente destinato ad essere internato in manicomio.
Lo stile di Vargas Llosa è quanto mai virtuosistico, non tanto sotto il profilo spazio-temporale (come avveniva invece ne “La Casa Verde”), bensì sotto quello strettamente narrativo, dal momento che è costretto a sdoppiarsi (e addirittura a moltiplicarsi) in continuazione. Confesso che, man mano che si dipanavano i capitoli lasciando intravedere scenari sempre più inattesi, ho accarezzato l’idea di un colpo di scena a sorpresa (come, ad esempio, la scoperta che la storia tra il protagonista e la zia Julia non fosse altro che il soggetto, destinato anch’esso a un epilogo eclatante, di uno dei drammi – il decimo? - di Pedro Camacho). E’ per questo che ho accolto con un pizzico di delusione l’ultimo capitolo che, saltando a piè pari più di dieci anni, fa scomparire senza troppi riguardi la zia Julia e riesuma invece un invecchiato Pedro Camacho, ridotto a fare il galoppino di una rivista di infimo livello, il tutto in maniera convenzionale e posticcia come nel più classico finale di un film hollywoodiano, e venato per giunta da una sfumatura di patetismo e di malinconia che non si confà assolutamente con il resto del libro. A imprimersi indelebilmente nella memoria, apparentemente sullo sfondo ma in realtà uno dei temi più riusciti de “La zia Julia e lo scribacchino”, resta invece la città di Lima, le cui strade, piazze, angoli e quartieri sono incessantemente percorsi in lungo e in largo dai tanti peripatetici personaggi del libro, in un affettuoso omaggio “topografico” che ricorda quello che Saramago ha tributato a Lisbona ne “L’anno della morte di Ricardo Reis”.
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Commenti
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Sulla 'leggerezza' in letteratura e non solo sono d'accordo, ma io la chiamo "lievità", perché il termine 'leggerezza' si presta facilmente a fraintendimenti.
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Un saluto