Dettagli Recensione
LA VITA E' SOGNO
“Ho la sensazione che basterebbe un istante, anche minuscolo, purché sia quello giusto. Come se una corda si spezzasse all’improvviso, e uno spesso sipario cadesse a terra rivelando un mondo interamente nuovo, un mondo pieno di luce e di calore”
“Gli inconsolabili” di Kazuo Ishiguro è probabilmente il romanzo più “kafkiano” che mi sia mai capitato di leggere. Quando il protagonista Ryder, un pianista di (presunta) fama internazionale, giunge nell’albergo dove gli è stata riservata una stanza, si percepisce subito infatti una forte impressione di irrealtà: la hall è stranamente deserta e, contrariamente alle previsioni, nessuno lo sta aspettando; quando finalmente viene condotto alla sua camera il viaggio in ascensore sembra non finire mai, tanto è vero che il facchino Gustav prima e la signorina Stratmann (sbucata alle sue spalle non si sa da dove) poi hanno modo di conversare lungamente con lui prima di giungere al termine della corsa; la stanza dell’hotel infine assomiglia stranamente a quella dove Ryder ha vissuto tanti anni prima, quando era bambino. Il tempo e lo spazio assumono fin dall’inizio connotati del tutto arbitrari. Quando, dopo essersi riposato dal viaggio, Ryder incontra in un bar del centro storico Sophie e decide di incamminarsi con lei ed il figlio Boris verso l’abitazione della donna, è grande la sorpresa nel ritrovarci ben presto e in maniera del tutto inopinata in mezzo alla campagna, ma ancora di più ci meravigliamo quando, scesa l’oscurità e persa di vista la sua guida femminile, Ryder riesce fortuitamente a trovare un passaggio per tornare in centro e il viaggio in auto, lungo strade misteriosamente deserte, dura un tempo molto più lungo di quello che aveva impiegato percorrendo a piedi le vie della città. E’ un po’ quello che ne “Il Castello” succede all’agrimensore K., il quale esce una mattina per raggiungere il Castello, ma dopo un paio d’ore trascorse in inutili tentativi si accorge con sommo stupore di essere già a notte inoltrata, mentre il protagonista del racconto “Un fatto d’ogni giorno”, dal canto suo, impiega dieci minuti per percorrere un determinato tratto di strada, ma il giorno dopo per fare lo stesso tragitto ci mette addirittura dieci ore. La cosa più strana di tutte è però un’altra. Ryder è arrivato nella città senza nome (ma – guarda caso – dai caratteri vagamente mitteleuropei) per tenere un importante concerto, da cui tutti si aspettano una svolta decisiva per le sorti della comunità in crisi. Stranamente però egli non ricorda assolutamente nulla del fitto programma di impegni che lo attendono e neppure delle persone che ruotano intorno all’imminente evento, ma ciò, anziché gettarlo nel panico, scalfisce a stento la sua imperturbabilità, lasciandolo al contrario distaccato ed impassibile, stolidamente convinto che le cose si sistemeranno da sole col passare delle ore. Ryder cerca, procedendo un po’ a tentoni, di farsi un’idea della situazione, ma nella sua ricerca di trovare il bandolo della matassa è continuamente distolto da una serie di personaggi che lo avvicinano per avanzargli una piccola richiesta (dare un’occhiata all’album di ritagli di giornale della moglie del direttore dell’albergo, ascoltare il figlio di quest’ultimo al piano per dargli dei suggerimenti tecnici, parlare con la figlia del facchino per aiutarla a risolvere i suoi problemi, e così via), a cui egli non sa mai dire di no. Il romanzo di Ishiguro si struttura ben presto come una sorta di “ronde”, in cui il protagonista è costantemente agito dagli eventi e manipolato dagli altri, i quali come in una immaginaria staffetta lo trascinano da un impegno all’altro senza che egli riesca mai non solo a portare a termine alcunché, ma addirittura a comprendere il senso di quello che gli sta succedendo. In questa girandola di inaspettate incombenze e di deviazioni dai propri proponimenti, che hanno il solo effetto di caricarlo di sempre nuove responsabilità e di dargli una permanente, fastidiosa sensazione di non riuscire mai a essere all’altezza del proprio ruolo, Ryder è costretto, per dare retta a tutti, a non accontentare mai nessuno, spesso deludendolo e addirittura abbandonandolo al suo destino (ad esempio, pianta in asso Sophie al cinema per seguire il consigliere Pedersen o lascia il piccolo Boris da solo al bar per concedere un’intervista fotografica a due giornalisti), correndo senza sosta da una parte all’altra per ritrovarsi poi magari inspiegabilmente al punto di partenza. Ad ogni istante nuove presenze si affacciano al cospetto di Ryder come figure appartenenti al suo oscuro passato, e l’amnesico narratore le ingloba come tessere di un laborioso puzzle attraverso la cui costruzione egli spera di riuscire a ricomporre il disegno della propria vita e trovare un senso agli accadimenti presenti. Così Sophie (la sua compagna?) e Boris (suo figlio?) rivendicano il ruolo di famiglia che il nomadismo carrieristico di Ryder rischia di mettere fatalmente a repentaglio, e i vari Geoffrey Saunders, Fiona Roberts e Jonathan Parkhurst accampano parimenti il diritto di avere un posto nel suo pantheon dei ricordi. Ad un certo punto della narrazione ricompare perfino la vecchia automobile di famiglia, all’interno della quale il piccolo Ryder amava giocare moltissimi anni prima.
L’ermetismo e la cripticità della storia rendono la lettura de “Gli inconsolabili” non propriamente agevole. Quello che è più difficile da accettare, ma che d’altra parte costituisce anche il suo più grande motivo di fascino, è la sua orizzontalità narrativa. In effetti nel romanzo di Ishiguro non c’è mai un vero e proprio climax, un’evoluzione coerente della storia, la quale – lo si può intuire ben presto – non va a parare da nessuna parte. Forse più ancora che a Kafka (con cui gli elementi di affinità sono evidenti: le cose più incongrue che assumono i connotati della normalità, la frammentazione della trama, l’evanescenza e bidimensionalità dei personaggi, il cui unico tratto distintivo è una logica assurda che viene adoperata in un’infaticabile attività di sillogizzazione) “Gli inconsolabili” mi ha fatto pensare a un film di Luis Buñuel, “Il fascino discreto della borghesia”. In questa pellicola un gruppo di altolocati personaggi è sempre in procinto di mettersi a tavola per pranzare o cenare, ma i loro rituali agapici sono costantemente interrotti per i motivi più bizzarri e stravaganti (un malinteso, una veglia funebre al ristorante, l’irruzione della polizia, ecc.) e non riescono mai a essere portati a compimento. Questa sorta di coazione a ripetere destinata a essere beffardamente vanificata (che si ritrova anche in altri film del regista spagnolo, come “L’angelo sterminatore”) è la stessa che fa muovere Ryder, continuamente distolto dai suoi improcrastinabili impegni da risibili contrattempi e da improbabili incontri. Il riferimento a Buñuel, regista onirico e surreale per definizione, mi permette di introdurre il tema fondamentale del sogno. Oltre al sovvertimento delle usuali coordinate spazio-temporali, di cui ho già parlato in precedenza, nel romanzo c’è un’altra caratteristica peculiare dei sogni, ossia la presenza costante di situazioni assurde e implausibili rivestite da una patina di normalità: così Ryder si presenta all’elegante ricevimento della Contessa addirittura in vestaglia e pantofole, e successivamente a un funerale con uno sgargiante completo sportivo; affacciandosi all’interno di un armadio riesce a vedere il teatro dall’alto, come se si trovasse in un palco; nel film “2001: Odissea nello spazio”, cui assiste al cinema con Sophie, ci sono Clint Eastwood e Yul Brinner nell’astronave in viaggio verso Giove; la sala migliore per esercitarsi al pianoforte si trova all’interno di un angusto capanno in cima alla collina; nelle ultime file del cinema gli spettatori giocano tranquillamente a carte, mentre in fondo all’autobus si può trovare un ricco e appetitoso buffet. A ciò si aggiunge che i personaggi appaiono e scompaiono senza preavviso, misteriosamente convocati dal lontano passato del protagonista e in esso di nuovo repentinamente risucchiati, e che Ryder riesce a vedere e descrivere perfino cose che sono al di fuori del suo punto di osservazione. L’ubiquità, la meccanicità e l’illogicità di persone e situazioni, oltre alla inspiegabile passività di Ryder, fanno sì che “Gli inconsolabili” – pur in assenza di una esplicita e inequivocabile presa di posizione dell’autore in tal senso – può essere letto come un lunghissimo sogno, dal quale gradualmente emergono, con il meccanismo inconscio tipico dei sogni, i sensi di colpa, i traumi rimossi e i fantasmi del passato del protagonista. Vista in quest’ottica l’apparente indecifrabilità del libro è in grado di acquistare una sua coerente intelligibilità. Secondo la mia interpretazione, il romanzo di Ishiguro altro non è in fondo se non l’incubo di un artista di successo alla vigilia di un evento decisivo per la sua carriera, nel quale si manifestano le sue paralizzanti paure (non ricordarsi il pezzo da suonare, arrivare in ritardo al Palazzo dei Concerti, non essere all’altezza delle aspettative riposte in lui, ecc.) o vengono rappresentati gli aspetti più difficili e faticosi della vita di un uomo di successo (le interviste da rilasciare, le cene e le conferenze a cui partecipare, i discorsi da fare, la famiglia distante a cui è possibile dedicare solo briciole di tempo, la difficoltà di avere rapporti umani autentici che vadano al di là dell’adulazione, della cortesia di facciata o dell’amicizia opportunistica). Ecco quindi che Brodsky e Christoff, ossia i musicisti in cui la comunità ripone o ha riposto in passato la speranza di una catartica palingenesi, altro non sono che degli alter-ego di Ryder simboleggianti la grande facilità con cui agli occhi dell’opinione pubblica è possibile passare dalla polvere agli altari e viceversa. Allo stesso modo Stephan rappresenta la proiezione giovanile di Ryder, la sua difficoltà di affermarsi nello spietato mondo dell’arte e i dubbi sul proprio talento; Fiona invece l’amicizia interessata, strumentalizzata ed esibita per fare colpo sugli altri; il consigliere Pedersen i personaggi pubblici che tirano gli artisti per la giacca al fine di sfruttare equivocamente la loro popolarità, e così via dicendo.
Alla luce di queste considerazioni, “Gli inconsolabili”, lungi dall’essere un libro noioso, ripetitivo e sconclusionato, come è stato frettolosamente etichettato da molti lettori e critici, è a mio giudizio un originale capolavoro, onirico e paradossale, che in certi passaggi sa essere anche comico (i buffi sforzi di Ryder di mantenersi calmo, responsabile e ponderato per padroneggiare la situazione che continuamente gli sfugge di mano, l’ipocrita manifestazione di cordoglio della città per la morte del cane di Brodsky) e inventivo (la virtuosistica danza del facchino) e perfino parlare di amore (quello di Brodsky per la signorina Collins o quello del direttore Hoffman per la moglie, amori romanticamente disperati e tormentosamente maledetti), un libro in cui si ha sempre la sensazione di trovarsi di fronte a una costruzione inconcreta e malsicura, destinata a crollare da un momento all’altro, e dove dietro le quinte del reale si annidano forze oscure e imperscrutabili, evocanti un mondo incomprensibile e alieno.
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Isiguro è un autore che mi piacerebbe approfondire.