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LA CADUTA IN DISGRAZIA DI UN UOMO QUALUNQUE
“- Che umiliazione, - dice David alla fine. – Tante grandi speranze per poi ridursi così.
- Sì, concordo con te, è umiliante. Ma forse è il punto di partenza giusto per ricominciare da capo. Forse è una lezione da accettare. Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità.
- Come un cane.
- Sì, come un cane.”
“Vergogna” è un romanzo disturbante, che spiazza e disorienta in continuazione il lettore, il quale assiste sbigottito al violento sovvertimento dell’equilibrio iniziale per ritrovarsi alla fine in un territorio inatteso e sconosciuto, senza solidi punti di riferimento (fosse anche solo un retroterra letterario e culturale comune e riconoscibile) a cui appigliarsi. Nelle prime pagine facciamo infatti la conoscenza con David Lurie, un uomo di mezza età che, nonostante due divorzi alle spalle e una professione per la quale non sente alcuna vera vocazione, è apparentemente appagato della propria vita e della propria posizione sociale. “Gode di buona salute, la sua mente è lucida. – annota Coetzee – Vive nei limiti del suo reddito, nei limiti del suo carattere, nei limiti delle sue capacità sentimentali. E’ felice? Secondo i normali criteri di valutazione, sì, ne è convinto. Ma non ha dimenticato l’ultimo coro dell’Edipo: non dire di un uomo che è felice finché non è morto.” A immediata riprova di questo sinistro monito, David entra in una spirale di circostanze avverse che lo porta ad essere cacciato con ignominia dall’università in cui lavora, a rifugiarsi – ospite non del tutto gradito – nella sperduta fattoria della figlia Lucy, a subire violenze, soprusi e umiliazioni di ogni sorta, a perdere beni, soldi e dignità, per ritrovarsi alla fine alle soglie della vecchiaia, stanco, spento e disilluso. La condizione esistenziale in cui viene a trovarsi il protagonista è quella dell’estraneità: estraneità alla vita, verso cui prova sempre meno interesse e desiderio, ed estraneità all’ambiente, sia quello della capitale, che lo espelle come un elemento sgradevole e indesiderato, sia quello, primitivo, tribale e ferino, della campagna dove vive (e ha deciso inopinatamente di mettere radici) la figlia, nel quale David non riesce ad integrarsi e dove si sente e viene considerato un forestiero.
La vergogna del titolo, quindi, è anzitutto quella di chi non riesce a sentirsi a casa propria da nessuna parte, coscritto e reietto, né completamente colpevole prima, nel Sudafrica ricco della cittadella universitaria, né completamente innocente dopo, incapace com’è di proteggere la figlia e costretto ad affidarla all’ambigua protezione dello scaltro ed enigmatico Petrus. E’ una paradossale legge del contrappasso a punire David il quale, costretto ad abbandonare l’università per molestie sessuali nei confronti di una sua studentessa (“non è stupro, non proprio, ma un atto indesiderato, profondamente indesiderato”), si ritrova, dopo l’aggressione subita nella fattoria di Lucy, ad assistere impotente alle conseguenze psicologiche della violenza sessuale di cui la figlia è rimasta vittima.Il protagonista diventa perciò il colpevole indiretto, per interposta persona se così si può dire, di un crimine, di una soperchieria, nei confronti della quale gli è persino negata la possibilità di indignarsi, in quanto egli stesso inconsciamente, atavicamente, ne è impregnato.
Nonostante il precedente riferimento all’”Edipo”, il destino di David non è quello della tragedia. Non è un particolare secondario, tutt’altro, il fatto che la vicenda sia contrappuntata dall’opera musicale sul periodo trascorso da Byron in Italia che da molto tempo egli si accinge a scrivere e che incessantemente modifica nella sua testa e nei suoi appunti. Orbene, man mano che David scende la china della vita, cadendo inesorabilmente in disgrazia, egli si allontana sempre più dal poeta arrogante, libertino e lussurioso per avvicinarsi invece all’amante Teresa, non però alla ragazza piena di ardore e di passione degli anni della sua relazione con Byron, bensì a una matura, ingrigita donna di mezza età che, tra i maliziosi sorrisetti dei domestici, vive ormai di ricordi e di reliquie, mentre il tono dell’opera abbandona tanto l’erotismo scandaloso quanto l’elegia crepuscolare per approdare addirittura al comico. L’oscura Teresa diventa in tal modo l’alter ego del protagonista, rispecchiandone i patetici fallimenti e la grottesca disperazione. Tale è infatti (in assenza di qualsiasi alternativa religiosa e spirituale, in quanto anche Dio è appannaggio di esseri piccoli e meschini come il padre di Melanie) la sorte riservata dall’autore a David, paludato intellettuale che si riduce alla fine a fare l’”angelo della morte” dei cani randagi alla clinica veterinaria della piccola cittadina di provincia, per l’unico e semplice motivo che non c’è nessun altro che sia altrettanto stupido per farlo.
Lo stile di J. M. Coetzee è piano, scabro e asciutto; fa corrispondere un massimo di precisione, di oggettività, quasi documentaristica si sarebbe portati a dire, a un minimo di emozione; è interno al personaggio (di cui registra meticolosamente riflessioni, dubbi, desideri e paure) eppure al tempo stesso è esterno, freddo e impersonale. Alla resa dei conti risulta lo stile congeniale per descrivere questa weltanschaung alla rovescia, questo prosaico e assai poco romanzesco viaggio agli inferi senza biglietto di ritorno, che esplora la degradazione dell’animo umano fino ai suoi più estremi limiti e confini.