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Il processo
 
Il processo 2018-10-12 08:35:43 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Ottobre, 2018
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LA COLPA E' SEMPRE FUORI DISCUSSIONE

“Il principio… è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione.” (Franz Kafka, “La colonia penale”)

Quante volte abbiamo usato o udito usare, più o meno a proposito, il termine “kafkiano”, ad indicare una situazione angosciosa ed inquietante alla quale l’uomo, a dispetto dei suoi disparati tentativi, non riesce a dare una spiegazione logica e razionale? Molte volte, senza dubbio. Il termine “kafkiano” è infatti entrato di diritto nel linguaggio comune, assumendo per l’uomo contemporaneo una potenza evocativa ed una connotazione emozionale altrimenti irriproducibili. A partire dalla sua morte, l’importanza di Franz Kafka nella cultura contemporanea è andata crescendo sempre di più, fino a raggiungere nel secondo dopoguerra una universale e definitiva consacrazione. La ragione principale di questo successo risiede a mio avviso nel fatto che i temi portanti delle opere dello scrittore boemo sono diventati paradigmi sorprendentemente attuali della profonda crisi spirituale dell’uomo moderno. In un mondo dilaniato da isterismi e da rigurgiti di barbarie, straziato dall’affannosa ricerca di nuovi valori in grado di sostituire quelli vecchi ormai giunti al tramonto, caratterizzato dall’irrazionalismo, dall’insofferenza verso le istituzioni e dall’incapacità di comunicare con il prossimo, l’emblematica ed anticipatrice sfiducia di Kafka nell’Illuminismo e nel principio della ragione umana come saldo potere di composizione e di superamento delle contraddizioni dell’essere ci appare sempre più come la tragica e consapevole visione di un geniale profeta.
Della produzione letteraria di Kafka, “Il processo” è sicuramente l’opera più famosa ed emblematica. Il suo famoso incipit (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”) getta subito il lettore in medias res, smorzando già sul nascere lo stupore e rendendo non più realizzabile il ritorno alla normalità. Né i capi di accusa (“Non le posso nemmeno dire che lei è accusato – afferma l’ispettore che conduce l’interrogatorio preliminare – o meglio, non so se lo sia. Lei è arrestato, questo è vero, ma non so altro”) né l’autorità che ha ordinato l’arresto vengono rivelati al protagonista, e l’intero romanzo in fondo altro non racconta se non i suoi strenui, inesausti ma pateticamente vani tentativi di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale. La Legge kafkiana non ha bisogno di ascrivere una colpa specifica ai suoi imputati, di accusarli di avere infranto questo o quel precetto: la colpa è completamente inconoscibile e immotivata. Nel tentativo, che noi intuiamo essere già fallito in partenza, di difendersi dall’imperscrutabile Tribunale, Josef K. è costretto a doversi difendere fino all’ultimo istante della propria vita. “Se sono condannato – si legge nei “Diari” – non sono condannato soltanto a morire, ma anche condannato a difendermi sino alla fine”. E’ questo, secondo me, il significato più profondo de “Il processo”, ed è illuminante analizzare in questa ottica la vicenda umana di Josef K. Egli inizialmente sottovaluta gli eventi, o meglio è convinto di poterli dominare agevolmente con la ragione: “Quando uno è al mondo da trent’anni e ha dovuto destreggiarsi da solo come è capitato a me – dice K. all’ispettore subito dopo l’arresto – è avvezzo alle sorprese e non le piglia troppo sul serio… D’altro canto però la cosa non può essere molto importante. Lo deduco dal fatto che sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa della quale mi si possa accusare”. Ciononostante, il germe del processo, prima latente manifestazione di un dirompente complesso di colpa, si è irrimediabilmente insinuato nel suo animo. Egli ad esempio vorrebbe ristabilire l’ordine nell’appartamento della signora Grubach illudendosi che, con l’eliminazione di ogni traccia degli incidenti del mattino, l’esistenza possa riprendere il regolare andamento di prima; oppure pretende di esorcizzare l’idea dell’arresto e metterne in risalto l’inconcretezza semplicemente parlando della sua avventura con le persone della pensione. Josef K. in realtà non accetta la rivelazione dell’irrazionale di cui ha avuto improvvisa nozione ed è costituzionalmente incapace di stare al gioco paradossale del Tribunale. Di fronte alla grottesca sceneggiata del primo interrogatorio, K. volta le spalle e fugge via, ma la settimana successiva è di nuovo là, ad aggirarsi inquieto intorno alla sala delle udienze. Nel corso della visita alle cancellerie, K. dà un’ulteriore prova del suo rifiuto di sottomettersi alla logica del processo. Nella squallida sala d’aspetto, egli ha l’occasione di incontrare numerosi imputati seduti in paziente attesa di ricevere notizie della loro causa. Benché tutti appartengano chiaramente ad un ceto elevato, il loro aspetto è arrendevole e dimesso, evidentemente per le molte umiliazioni ricevute. Josef K. prova un fiero disprezzo per quegli uomini rassegnati ed acquiescenti e, non nascondendo la sua aria di sprezzante superiorità, giunge perfino a schernirli e maltrattarli. Ma quando, oppresso dall’aria soffocante e insopportabile delle cancellerie, K. è costretto a trascinarsi penosamente all’uscita sorretto da due persone, la situazione si capovolge: agli occhi degli stessi imputati si presenta ora un uomo profondamente cambiato, prostrato e mortificato, oggetto per giunta del sarcasmo dei suoi soccorritori. In queste pagine il simbolismo di Kafka assurge a livelli di straordinaria efficacia. I luoghi in cui regna la Legge appaiono come luoghi claustrofobici, mefitici e irrespirabili. La Legge vizia l’aria della vita, distrugge la libertà e la freschezza dell’universo, soffoca l’uomo e gli impedisce di respirare liberamente. Non appena K. raggiunge l’uscita, “ecco arrivargli, come se la parete davanti a lui si fosse squarciata, una corrente d’aria fresca”; il malessere scompare all’improvviso e, mentre le forze ritornano miracolosamente in lui, K. si allontana di corsa per le scale. Ma ormai il cerchio del processo si è stretto inesorabilmente intorno a lui e lo ha catturato. Josef K. non può più vivere che in funzione del processo e tutto, dal lavoro in banca agli svaghi, deve essere sacrificato alla sua difesa. “Il disprezzo che prima aveva provato per il processo non contava più… Egli non era quasi più in grado di scegliere se accettarlo o respingerlo, ormai c’era dentro e doveva difendersi. Se era stanco, peggio per lui”. La spavalda sicurezza iniziale di K. ha sortito il solo effetto di rendere più dolorosa ed umiliante la sua sconfitta. Perduta con il passare del tempo la fede nel naturale emergere della propria innocenza e diventato egli stesso un patetico personaggio al pari di quegli imputati verso i quali provava prima tanto disprezzo.
“Il processo” è, secondo la definizione di Carlo Sgorlon, una vera e propria “proiezione scenografica di un ancestrale complesso di colpa”. Nessun ragionamento è in grado di eliminare il senso originario della colpa: esso cresce, si diffonde, diventa sempre più grande e insopportabile fino ad annientare totalmente la coscienza. Pur essendo formalmente libero e desideroso di dimenticare l’esperienza del processo, Josef K. è come se fosse rinchiuso tra le sbarre di una prigione come l’ultimo dei carcerati. La cupa ombra del sospetto non lo abbandona neppure per un istante, mentre tutte le persone con cui si imbatte casualmente per strada, dal ragazzo incontrato nell’androne di casa ai tre scialbi impiegati di banca che hanno assistito in disparte alla scena iniziale dell’arresto, sono inconsciamente messe in relazione con il processo, quasi fossero anonime pedine dell’organizzazione incaricate di tenerlo sotto controllo. D’altra parte, il suo comprensibile desiderio di riserbo e di discrezione è vanificato dal fatto che tutti intorno a K. sono a conoscenza del processo, anzi sembrano per una ragione misteriosa saperne molto più di lui. Quando, nell’ufficio della banca, l’industriale lo interpella a bruciapelo sull’andamento del processo, confessandogli poi di ricevere spesso qualche notizia dal Tribunale, Josef K. commenta sconsolato tra sé: “Quanta gente ha rapporti col Tribunale!”. Il pittore Titorelli, ambiguamente immischiato nel mondo dei giudici e delle cancellerie, glielo conferma più tardi quando, fra lo scherzo e la spiegazione, gli confida: “Tutto fa parte del Tribunale”. Al senso di colpa non si può quindi sfuggire. Siccome esso proviene da un’autorità superiore e inappellabile non si può fare altro che accettarlo remissivamente. Ne “La colonia penale”, che ho citato all’inizio, Kafka aveva affermato che per l’Essere giudicante la colpa è sempre fuori discussione: ora ne “Il processo” questa consapevolezza si è propagata come un cancro nell’animo dell’uomo, annientandolo.
Insieme alla paura di aver violato la Legge, vi è talvolta nei personaggi kafkiani l’atroce sospetto di avere commesso un errore iniziale che possa vanificare tutti i loro sforzi, il dubbio di avere imboccato fin dal principio una strada sbagliata. La stessa decisione di K. di scrivere una comparsa difensiva in grado di rievocare tutti i fatti della propria vita non è altro che lo sforzo disperato di scoprire un qualsiasi indizio in grado di rimandare ad una colpa sconosciuta. La ricerca di questa colpa diventa per l’uomo una questione vitale, perché solo trovandola egli riuscirebbe a giustificare razionalmente la sua incapacità di raggiungere la rivelazione. Kafka avverte però nel racconto “I patrocinatori” che non c’è più il tempo di voltarsi indietro: “Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo, hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente”. Novello Sisifo, l’uomo di Kafka è così costretto ad andare sempre più avanti, facendo rotolare il greve peso della sua colpa.
La filosofia di Kafka può essere anche sintetizzata, a mio avviso, come la tragedia della ragione che, pur sognando di sollevarsi dal relativo, non riesce, per quanti sforzi essa faccia, a raggiungere l’Assoluto. “Il processo” è infatti senza dubbio centrato sul problema della colpa e della punizione, ma può allo stesso tempo essere letto come una disperata ricerca di Dio da parte dell’individuo. In questa prometeica scalata all’Olimpo, Josef K. è completamente solo. Non voglio riferirmi qui alla solitudine intesa come impossibilità di intrattenere rapporti umani, bensì alla solitudine metafisica che prova colui che, dopo aver abbandonato il consesso degli uomini, si incammina senza conoscere la meta lungo l’impervio sentiero della conoscenza eterna, a quella cioè, narrata dal cappellano del duomo nella parabola “Davanti alla legge”, dell’uomo di campagna che si presenta davanti alla porta della Legge. E’ significativo che, nel finale della leggenda, il guardiano dica al contadino, proiezione simbolica dell’imputato del romanzo: “Questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”. Parimenti, in una sorta di simmetrica apertura di parentesi, quando K. si reca al primo interrogatorio, la donna che lo invita a entrare nella grottesca aula del tribunale gli sussurra: “Dopo di lei devo chiudere, nessun altro potrà più entrare”. In questo solitario tentativo di giungere fino al giudice supremo, Josef K. tocca con mano la terribile lontananza della sfera umana da quella divina, distanza che è materializzata nel romanzo dalla elefantiaca e labirintica burocrazia, nella cui enigmatica sfera i valori sono costantemente sovvertiti e l’assurdo diventa la normalità.
Pur dedicando tutta la sua vita al tentativo di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale, Josef K. morirà senza riuscire a conoscere la colpa commessa. Una mattina due uomini si presentano alla porta della sua camera e, senza che venga opposta da parte sua alcuna resistenza, lo conducono ad una cava di pietra, dove uno dei due lo uccide brutalmente colpendolo al cuore con un coltello da macellaio. L’ultimo disperato pensiero di Josef K. prima dell’esecuzione è l’impressione che la vergogna sia destinata a sopravvivergli. La morte “come un cane” di Josef K. è uno straziante grido di dolore levato al cielo, che oppone fino all’ultimo la sua glaciale incomprensibilità a chi gli chiede soccorso. La malvagità del fantomatico dio kafkiano raggiunge qui il suo culmine e fa riecheggiare le presaghe parole che Josef K. aveva pronunciato a Titorelli: “Un unico giustiziere potrebbe sostituire l’intero tribunale”. L’iniquità divina è per Kafka assoluta e indubitabile, e all’uomo non resta che sperimentare fino all’estremo istante sulla propria pelle l’estenuante assurdità del mondo.

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Giulio, la tua recensione è un saggio critico. Il libro è inquietante e conserva la modernità della grande Letteratura. Io però non vedo in Kafka del nichilismo o del 'pessimismo cosmico' . in lui la situazione è assai più complessa, basta pensare alla famosa Lettera, scritta e mai spedita a suo padre.
Commento molto bello e accurato per un autore che, mio malgrado, sento molto vicino...
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kafka62
13 Ottobre, 2018
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Ciao Emilio, in effetti Kafka non è nichilista, così come non lo era Leopardi. L'immagine più bella dei personaggi kafkiani è per me quella contenuta nel saggio di Camus "Il mito di Sisifo": come l'eroe del mito, i Josef K. e i Gregor Samsa non si rassegnano mai, ma portano avanti con indefessa energia e con grande dignità la loro impari lotta con il destino (o Dio, la Legge, il Potere o l'Autorità che dir si voglia), pur consapevoli che alla fine ne verranno crudelmente schiacciati. Comunque hai ragione, Emilio, Kafka è così complesso che è ridicolo ingabbiarlo in una definizione come "pessimista cosmico": significherebbe svilirlo irrimediabilmente.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
13 Ottobre, 2018
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Grazie Dany, mi fa piacere sentirtelo dire.
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