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I CIECHI SIAMO NOI
“La paura acceca, disse la ragazza dagli occhiali scuri, Parole giuste, eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi"
Il referente letterario d’obbligo di “Cecità”, il romanzo al quale il lettore istintivamente lo associa e con cui lo confronta, è sicuramente “La peste” di Camus. Entrambe le opere infatti parlano di un terribile e inarrestabile contagio e, in secondo luogo, sono essenzialmente metaforiche, rimandano cioè a una situazione più ampia e onnicomprensiva di quella rappresentata in superficie; anche se - questa è la prima e forse più importante differenza - ne “La peste”, scritta a guerra mondiale appena conclusa, l’epidemia simboleggiava inequivocabilmente l’ascesa e l’avanzata del nazismo, mentre in “Cecità” Saramago non vuole essere ingabbiato in interpretazioni storico-politiche circoscritte, preferendo invece, cosa che gli si confà assai di più, l’astrazione dell’apologo fantastico. La chiave di lettura più attendibile ce la dà però, nell’ultima pagina del libro, la moglie del dottore quando dice: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, […], Ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Con questa affermazione il messaggio dell’autore, da pseudo-fantascientifico quale poteva sembrare a prima vista, viene infatti spostato decisamente sull’oggi. I ciechi che si aggirano come fantasmi in un mondo esausto, sporco, barbaro e violento, siamo proprio noi, “ciechi che, pur vedendo, non vedono” dove sta andando il pianeta, vale a dire verso l’insopportabile divaricazione dei livelli di vita tra Nord e Sud del mondo (i paesi ricchi sempre più ricchi, quelli poveri sempre più poveri), verso l’esaurimento delle risorse naturali, verso lo sfruttamento selvaggio di quel poco che ancora rimane. Emblematico appare l’ordine sociale che si instaura, in assenza di qualsiasi legge civile e di un’autorità riconosciuta, nell’ex manicomio dove vengono rinchiusi i primi ciechi: in breve tempo, al di là di ogni immaginazione e contravvenendo al luogo comune che vorrebbe i malati esseri più sensibili della norma e solidali gli uni con gli altri, a prevalere è l’anarchia, la sopraffazione, la violenza più odiosa (gli stupri collettivi cui le donne sono sottoposte, con l’umiliante connivenza degli uomini che altrimenti non riuscirebbero ad ottenere il cibo necessario per sopravvivere). Chi non vede in questo la metafora dell’imperialismo, del capitalismo selvaggio e in generale degli squilibri economici, politici e demografici del pianeta (pochi ciechi possiedono armi, cibo e ricchezze a danno di tutti gli altri, che sono poveri, affamati, vessati e in soprannumero)?
La seconda chiave di lettura di “Cecità” è meno allegorica. Saramago, da impareggiabile umanista quale egli è, si propone di verificare dove può giungere l’uomo, o meglio quel quid misterioso che lo fa essere uomo, diverso dagli animali, in una parola la sua umanità (o anima o spirito che dir si voglia), se rimane privo dei più elementari strumenti di sopravvivenza, gli occhi per vedere, il cibo per nutrirsi, l’acqua per lavarsi. La conclusione sconsolata dello scrittore lusitano è che, privo di tutte quelle certezze che la civiltà gli garantisce e che vengono date in gran parte per scontate, egli regredisce ben presto a uno stadio subumano, bestiale, sia da un punto di vista fisico sia, ciò che più importa, sotto un aspetto squisitamente morale: tutto diventa lecito, l’indifferenza verso il prossimo è totale, ciò che conta è unicamente la propria sopravvivenza e il proprio personale tornaconto. Il pessimismo di Saramago è assoluto e apparentemente senza vie di uscita, soprattutto nella prima parte ambientata nell’ex manicomio, dove oltretutto il punto di vista è claustrofobico (“Il mondo è tutto qui dentro” dice la moglie dell’oculista), gli avvenimenti esterni sono completamente assenti (togliendo così ogni residua occasione di suspense narrativa) e il muro di cinta un ostacolo invalicabile anche per il lettore. Poi, quasi come se, toccato il punto più basso ed infimo, qualcosa di meglio (o di meno peggio) dovesse per forza toccare in sorte ai personaggi, lo scrittore portoghese apre un piccolo spiraglio alla speranza. E lo fa con un’altra di quelle strambe e anomale famiglie che spesso popolano i suoi romanzi (penso a “La zattera di pietra”, ricollegabile a “Cecità” anche per il tema dell’evento inspiegabile del quale i personaggi sono vittime, e a “La caverna”): guidati da quell’eccezionale personaggio-vate che è la moglie del medico (l’unica persona ad avere conservato la vista), due uomini, due donne, un vecchio, un bambino e (non poteva mancare) un cane, vanno faticosamente in giro per il mondo affermando giorno per giorno, con la solidarietà reciproca, con il rispetto per quel poco di umanità che ancora resta in loro stessi, con la dignità difesa dalla subdola tentazione di lasciarsi andare e, soprattutto, con il senso di responsabilità e di servizio verso il prossimo (la moglie dell’oculista che prima, pur non essendo malata, finge di esserlo per seguire il marito nella sua reclusione, e poi si consuma e si sfinisce nel voler essere gli occhi che mancano a chi è attorno a lei), che un futuro diverso è ancora possibile. Infine, nelle ultime pagine, dopo che in precedenza ci aveva fatto toccare l’orrore più puro e descritto la miseria dell’uomo ridotto alla sua dimensione più ripugnante e scatologica, Saramago fa tornare la vista a tutti, così, inspiegabilmente come all’inizio l’avevano persa, con un’inattesa e repentina facilità che sembra voler affermare, ad onta di ogni evidenza, che in questa nostra vita pericolosamente in preda alla cecità della ragione non tutto forse è ancora perduto.
Indicazioni utili
"La zattera di pietra" di José Saramago
"La caverna" di José Saramago
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