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IL PREZZO DEL SOGNO
Una dozzina d’anni fa Gabriele Muccino girò in America un film intitolato “La ricerca della felicità”. Questa pellicola, al di là del suo effettivo valore artistico, aveva il pregio di mettere al centro della trama quello che ritengo sia il fulcro dell’american way of life, ossia il diritto-dovere di lottare per migliorare la propria condizione personale e di ottenere, grazie esclusivamente alle proprie forze, al proprio ingegno e al proprio lavoro, il successo e l’affermazione sociale, la felicità appunto. Se il cinema hollywoodiano, che fin dalle sue origini ama flirtare con l’happy ending, è sempre stato pieno, da Frank Capra fino ai giorni nostri, di storie che si concludono con l’esaltazione apologetica del sogno americano, la letteratura statunitense è stata al contrario maggiormente critica nei confronti di questo sogno, a cui ha spesso (basti pensare a Steinbeck, per fare un solo nome) attribuito le fattezze di una illusoria e crudele chimera. Grossomodo a metà strada si situa l’ultima voce della narrativa d’oltreoceano, Imbolo Mbue, camerunense d’origine e americana d’adozione, che con “Siamo noi i sognatori” (vincitore nel 2017 del PEN/Faulkner Fiction Award) ha voluto dare la sua personale versione dell’american dream. Il suo libro racconta l’odissea della famiglia Jonga, emigrata in America in cerca di fortuna e di migliori opportunità per i propri figli, ma la cui condizione “irregolare”, dovuta alle difficoltà di entrare in possesso della agognata green card e di ottenere in tal modo la cittadinanza americana, la espone a tutte le incertezze e le traversie che al giorno d’oggi accomunano i migranti di tutto il mondo e che i notiziari televisivi continuano quotidianamente a portare, nella loro crudezza, fin dentro le nostre case. Il capofamiglia, Jende, riesce all’inizio del romanzo a ottenere un ben remunerato impiego come autista al servizio di un facoltoso dirigente finanziario di Wall Street, e questo colpo di fortuna sembra indirizzare positivamente i destini della famiglia: le entrate permettono di mettere da parte dei risparmi per i tempi bui, di pagare gli studi della moglie Neni per diventare farmacista e di togliersi perfino dei piccoli sfizi. Al primogenito Liomi si aggiunge una seconda figlia, e l’America appare davvero il paese dove scorrono “latte, miele e libertà”. La crisi economica è però in agguato (siamo nel 2008, e il datore di lavoro di Jende lavora proprio per quella Lehman Brothers il cui fallimento è stato all’origine della più lunga e devastante recessione mondiale dopo quella del 1929) e l’Ufficio Immigrazione tenta in ogni modo di mettere i bastoni tra le ruote del sogno dei Jonga di diventare cittadini americani.
Se nel romanzo della Mbue gli agili e brevi capitoli seguono alternativamente le vicende di Jende e di Neni, raccontando gioie e dolori della loro vita newyorkese, altrettanto vivide si stagliano le figure deuteragonistiche dei coniugi Edwards, Clark e Cindy, le cui telefonate private, gli sfoghi emotivi e perfino le confessioni intime Jende ha modo di ascoltare mentre accompagna il marito alle riunioni di lavoro e la moglie ai pranzi con le amiche. Quando Neni viene a sua volta assunta come domestica e bambinaia per un’estate, ella diviene addirittura una preziosa confidente della ricca e avvenente padrona di casa, lenendo con premurosa sollecitudine la sue angosce. Ben presto si scopre infatti che dietro alla sfarzosa vita degli Edwards (con domestici e autisti che si prendono cura di loro ad ogni ora del giorno, un appartamento nell’Upper East Side e una seconda casa negli Hamptons) non tutto è perfetto come sembra: Clark passa la maggior parte del tempo lontano dalla famiglia e sfoga lo stress lavorativo per mezzo di incontri clandestini con escort di lusso; Cindy annega la sua depressione nell’alcool e nelle pillole; il figlio primogenito Vince manda provocatoriamente all’aria gli ambiziosi piani predisposti per lui dai genitori per andare in India in cerca di pace e di spiritualità. Insomma, se uno degli intenti delle soap opera era, lo ricordiamo, quello di dimostrare che “anche i ricchi piangono”, beh, allora il libro della Mbue può assomigliare un po’ anch’esso a una soap.
In realtà l’approccio scelto in “Siamo noi i sognatori” è molto più problematico di quanto appaia ad una frettolosa lettura. La scrittrice afro-americana riesce infatti nell’intento di analizzare con intelligenza (ed anche una insospettabile leggerezza) la struttura dei rapporti economici del mondo del XXI secolo, un mondo spietato e iniquo che invita chiunque a entrare per assaporare le delizie della società consumistica, ma che, nella sua apparente democraticità, non fa che perpetuare le disuguaglianze e le disparità sociali, a partire dal significato stesso che per ciascuno dei personaggi ha il lavoro. Per gli Edwards esso è il mezzo per mantenere i propri privilegi e i propri status symbol, per i Jonga è l’unica possibilità per non perdere il diritto a rimanere in America e, evitando l’espulsione, a garantire ai propri figli un futuro dignitoso. Anche la crisi economica non è uguale per tutti. Se per gli Ewards essa significa un abbassamento temporaneo del tenore di vita, per i Jonga è invece la rovina completa, il fallimento. Viene qui adombrata in chiave contemporanea la concezione marxista della storia, con la sua divisione della società per classi, il carattere eminentemente transazionale dei rapporti umani e l’alienazione sociale che si riflette persino nelle vite private (“Per la prima volta nella loro lunga storia d’amore ebbe paura che la picchiasse. Era quasi certa che l’avrebbe picchiata. E se l’avesse fatto, avrebbe saputo che non era il suo Jende che la picchiava, ma un essere grottesco creato dalle sofferenze di una vita da immigrato in America.”). C’è una differenza sostanziale, però, rispetto al marxismo: da parte delle classi sociali più povere, degli immigrati e del sottoproletariato urbano vi è una adesione incondizionata all’american way of life, e mai si intuisce alcuna autentica velleità trasformatrice della società. Il signor Edwards è il modello a cui la famiglia di Jende aspira (“un giorno diventerai un pezzo grosso di Wall Street come il signor Edwards”, confida Neni al figlio), e neppure l’improvviso e inopinato licenziamento è in grado di mettere in discussione questa granitica certezza. Anche quando Neni decide di venire sorprendentemente meno ai propri valori morali per salvare la propria famiglia a spese della signora Edwards, non c’è in questa scelta alcuna rivendicazione ideologica né tantomeno alcun rancore personale represso, ma semplicemente un disperato espediente alla Filumena Marturano.
Non posso negare che il romanzo della Mbue soffra di un certo didascalismo di fondo. Si prenda ad esempio il sogno premonitore di Jende, in cui gli imbroglioni che hanno truffato la madre dell’amico prefigurano gli speculatori di Wall Street che con i subprime e i derivati hanno rovinato decine di migliaia di risparmiatori. Viene poi accennato (anche se ironicamente smentito) un parallelismo tra l’America della crisi economica e l’Egitto delle bibliche piaghe, come se le due calamità siano state un comune castigo nei confronti di chi aveva “preferito la ricchezza alla rettitudine, la rapacità alla giustizia”. Anche al netto di certe ovvie semplificazioni, ritenute evidentemente necessarie per far comprendere al lettore medio gli effetti sul mondo reale di una crisi finanziaria epocale (ad esempio, il meccanismo perverso dei prestiti che le banche concedevano largamente prima del 2008 anche a chi non poteva concedere alcuna garanzia viene sintetizzato nel caso di un amico di Jende, il quale perde la casa non potendo più pagare le rate del mutuo), “Siamo noi i sognatori” è un’opera che vanta una discreta complessità psicologica. La perdita del posto di lavoro, l’improvviso abbassamento del tenore di vita e, soprattutto, la paura di dover abbandonare gli Stati Uniti per sempre, innescano nei coniugi Jonga una serie di reazioni non scontate, di dolorosi adattamenti alla realtà, di metamorfosi caratteriali (anche nei rapporti reciproci), che portano Jende e Neni alla fine del romanzo ad essere molto diversi dalle figure candide e ingenue che erano all’inizio (Neni arriva a pensare di divorziare dal marito e fare un matrimonio di convenienza con un americano pur di ottenere la cittadinanza, o addirittura di dare in adozione il figlio per permettergli di continuare a vivere negli Stati Uniti). La Mbue è sincera e parla di cose che evidentemente conosce molto bene, dal momento che molte peripezie passate dai protagonisti devono anche essere state le sue, da quando, diciassettenne, mise per la prima volta piede negli Stati Uniti. La sua prosa semplice e scorrevole, abbastanza elementare nella sintassi e nel lessico (con il ricorso frequente a termini africani), è comunque efficace (nonostante qualche buonismo di troppo) nel costruire personaggi di notevole spessore (soprattutto quelli femminili di Neni e Cindy, dolorosamente sfaccettati, a fronte di una maggiore prevedibilità di quelli maschili) e nel mettere a confronto (a volte anche con effetti che rasentano l’umorismo) due culture così diverse e per certi versi inconciliabili come quella occidentale e quella africana. Il finale conciliatorio, che sembra contraddire il cinismo di altre parti del romanzo, non deve trarre in inganno. Quella che risuona nella testa del lettore, una volta chiuso il libro, è soprattutto una domanda (che la situazione dell’America odierna, in cui a Obama è succeduto Trump, rende ancora più pressante): se il sogno americano è quello descritto dalla Mbue, valeva davvero la pena sognarlo?
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