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ALLA RICERCA DELLE COLPE DEI PADRI
“Il signor Mani” è un romanzo sperimentale e simbolico. Esso è anzitutto strutturato in forma di dialogo, di un dialogo però alquanto sui generis, in quanto viene riportata solo la parte di uno dei due interlocutori, come se il lettore assistesse a una conversazione telefonica da un solo capo del filo. Attraverso questi dialoghi-monologhi viene tracciata in maniera indiretta, obliqua, trasversale (in quanto i protagonisti sono solo evocati da personaggi di contorno che hanno casualmente incrociato le loro traiettorie esistenziali) la storia di una famiglia ebrea nell’arco di un secolo e mezzo. Queste conversazioni che abbiamo visto non avere niente a che fare con la struttura teatrale tradizionale (del tipo domanda di A e risposta di B) e che escludono del tutto (a parte l’ultimo dialogo) i personaggi principali, partono dall’oggi e, anziché seguire un andamento cronologico progressivo, risalgono indietro nel tempo, svelando così il senso degli avvenimenti attuali solo gradualmente, a scoppio ritardato. A parte i dialoghi, c’è inoltre per ognuno di essi un prologo di presentazione dei personaggi e un epilogo di aggiornamento biografico, redatti in maniera fredda ed enciclopedica, un po’ come aveva fatto Böll in “Foto di gruppo con signora”. Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere come la storia dei Mani venga alla luce in maniera forzatamente frammentaria e lacunosa (i vuoti narrativi sono di diversi decenni, le vicissitudini dei Mani vengono viste attraverso una prospettiva esterna, anche se la scelta di momenti storici cruciali come la Seconda Guerra Mondiale le rende in qualche modo emblematiche), evitando in tal modo all’autore la tentazione di scrivere una saga familiare classica e trasformando i Mani stessi in una grande metafora dell’ebraismo.
Se quello sperimentale è forse l’aspetto più lambiccato e macchinoso dell’opera, il coté simbolico è sicuramente il più affascinante. L’impulso suicida del primo Mani (l’ultimo cronologicamente parlando), apparentemente immotivato e inspiegabile, man mano che il libro va avanti assume i contorni di una maledizione ancestrale che viene trasmessa di generazione in generazione, fino a trovare con l’ultimo Mani (in realtà il primo della genealogia) la sua ragione in un vero e proprio peccato originale, l’incesto con cui l’anziano Abraham consente alla nuora di mettere alla luce un nuovo Mani, permettendo così alla stirpe di non estinguersi. Questa trasgressione originaria ritorna inconsciamente nelle generazioni successive, le quali cercano di espiare l’atavica colpa mettendo in atto ossessivi e irrefrenabili comportamenti autodistruttivi: Moshé Mani muore nel 1899 gettandosi sotto un treno, apparentemente per aver perso la testa per una giovane e avvenente ebrea tedesca; il figlio Josef fa di tutto per essere giustiziato durante la Grande Guerra per alto tradimento; e così via fino al giudice Gabriel che ai giorni nostri viene casualmente distolto dai suoi tentativi di suicidio a causa dell’arrivo improvviso nella sua casa della fidanzata del figlio. Benché non sia di immediata decifrazione, non è troppo difficile leggere in questi assurdi comportamenti una metafora dell’ebraismo: il peccato dei Mani non è altro infatti che la colpa primigenia del Popolo Eletto, vale a dire l’uccisione del Cristo, che si ripercuote nei secoli contro di loro, sia sotto forma di persecuzioni (le diaspore, l’Olocausto) e pregiudizi ostili, sia sotto forma di impulsi masochisti (l’orgoglioso isolamento religioso, geografico e politico). I vari Mani cercano strenuamente di opporsi a questa maledizione, sia in virtù di una sorta di preveggenza, come se leggessero in una sfera di cristallo la catastrofica situazione dell’Israele di oggi (il Josef del 1848 che è spinto dal “desiderio di unire le persone fra di loro e lottare contro tutto quanto gli pareva una chiusura, una forma di isolamento”, il Josef di mezzo secolo dopo che esorta arabi ed ebrei a darsi una identità politica e a creare le condizioni di una pacifica convivenza, fino ad allora garantita dal dominio straniero), sia per mezzo del loro pratico buon senso (Efraim che, in piena Seconda Guerra Mondiale, tenta di “autoannullarsi” per evitare la deportazione), ma tutto è inutile, e la loro tragica, ineluttabile eredità continua a essere trasmessa fino ai nostri giorni, simbolo di quel dilaniante conflitto che vediamo tragicamente riempire, con stragi di kamikaze, bombardamenti e sanguinose repressioni, le pagine di tutti i giornali.
La vocazione metaforica di Yehoshua si sostanzia in una scrittura criptica, ricca di corsi e ricorsi, leit motiv e doppi speculari. Non è solo l’ossessione suicida dei Mani a essere trasmessa di generazione in generazione come un esecrato testimone. Il giovane Josef nel 1848 penetra infatti nottetempo nelle case degli “ebrei che ancora non sanno di essere ebrei” per cercare prove della loro ebraicità, così come fa il tedesco Egon Brunner un secolo dopo per smascherare l’ebreo che sostiene di essersi “annullato” (con la segreta speranza che un giorno, giunto al redde rationem della storia, sia possibile anche per lui - nazista - annullare i propri crimini con un semplice atto di volontà). Anche gli oggetti riemergono nel corso dei decenni, come la pelliccia di volpe del patriarca Abraham che Moshé indossa prima di morire, o la clinica ginecologica trasformata al giorno d’oggi in condominio residenziale. C’è inoltre una vera profusione di doppi, dalla giovane e avvenente nuora di Josef, che ha una prodigiosa somiglianza con Flora, suo amore di gioventù e sposa dell’anziano rabbino suo maestro, ai tanti specchi della casa gerosolimitana che si riflettono tra loro, “e per un attimo non si sapeva più chi era chi e chi non era chi”. Tutto ne “Il signor Mani” è indistinto, opaco, doppio, ed ogni cosa è legata ad un’altra, in una catena senza soluzioni di continuità. Niente è ciò che appare a prima vista, ma rimanda a ragioni sotterranee, oscure, ancestrali, che conferiscono al romanzo un fascino borgesianamente labirintico, come labirintica è l’altra vera, grande protagonista, quella Gerusalemme in cui “ogni cosa è legata all’altra, e non c’è alcuna barriera invalicabile, e si può passare da una casa all’altra senza uscire per strada”, quella Gerusalemme crogiolo di razze e religioni, in cui convivono ebrei ashkenaziti e sefarditi, cristiani e musulmani, turchi e inglesi, europei e arabi, e di cui Yehoshua ci fa assaporare l’inebriante, stordente profumo di spezie e di deserto.
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Sulla piacevolezza della lettura comprendo : si tratta di un autore che , accanto a parti molto scorrevoli , affianca pezzi non facili da seguire. In effetti, l'unico libro che ho letto tutto d'un fiato, come si suol dire, è stato "Ritorno dall'India".