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Vivere e lasciar vivere
Che cosa spinge un giovane musulmano, nato e cresciuto in Europa, a imbottirsi d’esplosivo per farsi saltare in aria in mezzo alla folla di una metropoli occidentale? Perché in tanti, troppi, si lasciano abbagliare dalle parole di falsi profeti che istigano alla violenza quale unica strada da seguire? Cosa alimenta la rabbia delle periferie, smisurata a tal punto da sfociare in attentati e massacri indiscriminati perpetrati in nome di Dio?
Avvincente ed emozionante, l’atteso nuovo romanzo di Yasmina Khadra cerca di trovare risposte a tali quesiti, presentandosi come una lettura particolarmente invitante per chi sia interessato ad approfondire temi di forte attualità come quelli dell’integrazione e del terrorismo legato all’estremismo islamico. Fin dall’incipit, l’argomento viene affrontato di petto, senza mezzi termini: “Eravamo quattro kamikaze. La nostra missione consisteva nel trasformare la festa allo Stade de France in un lutto planetario.”
Lo scenario iniziale prescelto è quello della Parigi degli attentati del 13 novembre 2015, ancora ben vivi nella memoria dell’opinione pubblica internazionale. Khalil, il protagonista, un ragazzo di origini marocchine che vive in Belgio, è uno dei kamikaze incaricati d’innescare la miccia di quel grande macello che avrebbe avuto risonanza a livello appunto planetario. Qualcosa, però, va storto e per lui, destinato al paradiso dei cosiddetti martiri, si apre sulla terra stessa un inferno forse peggiore di quello dell’oltretomba. Ventitré anni vissuti tra problemi familiari, insuccessi scolastici e disoccupazione, il giovane appartiene alla seconda generazione d’immigrati per la quale, in molti casi, la piena integrazione nel Paese di accoglienza non si è realizzata e il cui disagio e aspirazioni frustrate vengono intercettate da organizzazioni terroristiche subdolamente mascherate da moschee e centri culturali; da qui a ritrovarsi reclutati in operazioni suicide il passo è più breve di quel che si possa immaginare.
“Poi una sera un vicino, un amico o qualcuno che conosci appena comincia a elogiare le prediche dell’imam dell’angolo. […] Alla fine ti convince a seguirlo nel buco dove officia l’imam. […]E così eccoti lì a orecchiare distrattamente, annoiandoti in mezzo al gregge. […] Quanto all’imam, ha una risposta a tutte le domande su cui un tempo ti arrovellavi senza trovare un indizio che ti illuminasse. L’imam ti rimanda alle tue sconfitte, alle vessazioni che credevi di aver superato, alle ferite mai cicatrizzate – il poveraccio diventa tuo sosia, il ribelle tuo fratello siamese, le prediche la tua valvola di sfogo, la violenza la tua legittimazione. Al diavolo i razzisti, a morte gli islamofobi: non porgerai più l’altra guancia.”
Non esser riuscito a portare a termine la missione parigina, oltretutto non per responsabilità propria, non gli preclude la possibilità di prendere parte a un’altra operazione, pianificata con estrema cura, ma nel frattempo, prima che il destino di Khalil si possa compiere in una famosa e affollata piazza di Marrakech, l’imprevedibile lo colpirà negli affetti più cari, all’improvviso e senza pietà, facendo vacillare la fortezza delle sue convinzioni incrollabili e la fede cieca riposta in un Islam manipolato ad arte da chi, caso strano, quando è il momento di agire, non indossa mai cinture esplosive né si sporca le mani di sangue in prima persona.
Con un ottimo stile narrativo che fa perno su un io narrante straordinariamente coinvolgente e convincente, la penna dello scrittore algerino ci sorprende con una storia drammatica che non può non indurre a riflettere; una storia che, attraverso tutti i suoi personaggi, da quelli principali a quelli secondari, tenta di scavare a fondo nella questione, e forse ci riesce pure, evitando banalità e spiegazioni superficiali e andando oltre il concetto di jihad così come ci viene somministrato in modo semplicistico dall’informazione dei media. Parola dopo parola, Yasmina Khadra analizza una pericolosa situazione in seno all’Occidente che si deve sì combattere, ma soprattutto prevenire; ci sono intere pagine davvero significative che danno vita al tormentato monologo interiore del giovane Khalil, pagine in cui, se le si legge e rilegge con attenzione, sta la chiave di tutto.
Il libro punta il dito contro il terrorismo e il fatto che l’autore sia musulmano dà ancor più rilevanza a tale condanna senz’appello; oltretutto, la sua non è una voce isolata all’interno del mondo islamico poiché nessun vero credente può accettare che si commettano simili atrocità in nome di Allah e del suo Profeta. Spesso si addita il Corano in quanto testo che incita alla violenza, ma in realtà i versetti incriminati andrebbero anzitutto contestualizzati, cioè valutati tenendo ben conto dell’epoca storica e del contesto socio-politico in cui essi furono rivelati; del resto, a ben vedere, anche la nostra Bibbia si presenta molto dura sotto certi aspetti, nessuno però si sogna di applicare alla lettera quanto lì scritto altrimenti dovremmo ridurci a sottostare alla legge del taglione. E poi il libro sacro dell’Islam, estremamente complesso anche per i musulmani stessi, afferma tanto altro in fatto di giustizia, pace e conoscenza tra i popoli e i ragazzi indottrinati nelle pseudomoschee delle città europee, proprio come emerge dai fatti di cronaca e anche dal romanzo di Khadra, per lo più non leggono il Corano, accontentandosi delle dubbie interpretazioni di ciarlatani e sedicenti califfi che mistificano la parola di Dio.
Dalle pagine di questo libro, dunque, arriva inequivocabile la condanna del terrorismo, ma anche un monito all’Europa e all’Occidente in generale: agire affinché si combattano, in primis attraverso l’istruzione, razzismo e islamofobia che non hanno ragion d’essere e che, purtroppo, dilagano ormai nelle nostre società tronfie di una superiorità più presunta che reale; e poi impegnarsi per sradicare povertà, ineguaglianza e ignoranza, prima a casa nostra e magari anche in giro per il mondo. Perché senza seminare giustizia ci autodistruggeremo e fra cento anni staremo ancora a parlare di guerre sante facendo il gioco di coloro che con esse ci guadagnano. Soltanto così si potranno arginare l’odio e la rabbia delle periferie, sia quelle delle nostre città dove si concentrano gli immigrati sia di quelle tra le più povere del mondo. Soltanto così si potrà di nuovo nutrire speranza nel futuro. Perché, per dirla con le parole del vecchio Moka, uno dei tanti sconfitti dei quartieri ghetto come quello di Molenbeek, che riecheggeranno alla fine del romanzo, il segreto è “vivere e lasciare vivere. Niente è più prezioso della vita e nessuno ha il diritto di toglierla.”
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Grazie, Laura