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Claustrofobico, ma... sì!
Con questo ho fatto fatica, all'inizio.
Un po' devo ammettere che avevo alcuni preconcetti sul "caso editoriale" dell'anno, e poi ero (e sono) un po’ stuccata dai protagonisti simil autistico/asperger che da quando letteratura e cinema li hanno scoperti, pare non ci sia altro; invece poi la storia si dipana bene, pur con qualche escamotage un po’ facile.
Quello che mi è piaciuto è che funziona il personaggio e – soprattutto – funziona la sua evoluzione.
La psicosi di Eleanor è reattiva al “fatto centrale” intorno al quale lei è costretta a ricostruirsi e ri-strutturarsi.
Illustra in modo mirabile la necessità di un bambino di vedere i genitori (qui la madre) in luce positiva e l’evoluzione da un pensiero derivato da quello genitoriale ad uno autonomo ed originale.
In questo senso quanto è bello il passaggio sull’autobus, quando si accorge che il signore malvestito e dall’aspetto bizzarro è il solo ad accorgersi di lei e del suo pianto.
La sua agnizione, la sua scoperta, il suo svincolarsi, finalmente, dal pensiero materno è tutto in quel "Non era pazzo. Non portava i calzini, tutto lì."
Eleanor è molto rigida nella gestione delle relazioni umane ed estremamente (ed eccessivamente) razionale nelle medesime. Quasi leopardiana, dall’inizio: "In ufficio c’era quel senso palpabile di gioia del venerdì, quando tutti sono collusi con la menzogna che il weekend sarà fantastico e che la settimana seguente il lavoro sarà diverso e migliore. Sono incorreggibili."
È scarsamente empatica e legge con logica matematica le relazioni sociali:
“Però, attraverso l’attenta osservazione dai margini, avevo scoperto che spesso il successo sociale si basa su un minimo di finzione. A volte le persone popolari devono ridere di cose che non trovano molto divertenti, devono fare cose cui non tengono particolarmente, con gente di cui non apprezzano particolarmente la compagnia. Io no. Anni prima avevo deciso che se la scelta fosse stata tra fare così o volare in solitaria, allora avrei volato in solitaria. Era più sicuro. Il dolore è il prezzo che paghiamo per l’amore, dicono. E questo prezzo è troppo alto."
Ha più di qualcosa del nostro amatissimo Spock, n’est-pas? Ma avverte il bisogno di qualcosa che manca, che non sa definire, che le è stato portato via: "Inoltre è sempre bello sentire il mio nome scandito da una voce umana".
Lo avverte in modo nebuloso all’inizio e poi sempre più chiaramente.
Ok, è una specie di favola con tanto di simil happy end.
Ma la storia funziona e pur facendo un po’ male, scorre in modo razionale ed apre ad una cauta speranza. Alla fine Eleanor trova un compromesso accettabile fra l’essere sé stessa, essere parte di una comunità e, soprattutto, liberarsi dai fantasmi.
E – altro punto interessante - l’autrice giuda la storia in modo intelligente, non indulgendo mai nel patetico, nel macchiettismo, nell’effetto facile.
Bon.
Claustrofobia a parte, son lieta di averlo letto e lo consiglio affettuosamente.
Ad Maiora.
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