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SCACCO MATTO, MONSIEUR POPINGA
Kees Popinga è un assiduo, appassionato giocatore di scacchi. Il particolare non è secondario, perché come una vera e propria partita di scacchi, con le sue mosse e contromosse, le sue tattiche e strategie, egli affronta la sua originalissima avventura che, da un onesto e rispettabile impiego da procuratore, lo porta inopinatamente a diventare il ricercato numero uno della polizia criminale di Parigi. L’orgoglio di tenere in scacco le forze dell’ordine con la sua sola intelligenza, applicando nelle sue azioni quotidiane la stessa prudenza e la stessa sagacia di uno scacchista (ad esempio, non avere mai un metodo personale, facilmente identificabile, ma adattarsi sempre all’avversario che si ha di fronte), lo porta però fatalmente a trascurare le scarse risorse a disposizione (un alloggio da cambiare ogni notte, una giornata intera da riempire con una qualsivoglia occupazione, nessun abito di ricambio, pochi soldi in tasca), col risultato che, anziché diventare un novello Landru, finisce per cadere in un drammatico cul de sac. E come anni prima si era vendicato di una cocente sconfitta scacchistica in una partita ad handicap gettando un alfiere dell’avversario in un boccale di birra, così a Popinga non resta che reagire all’inevitabile arresto finale con una beffa estrema, rifugiandosi cioè come l’Enrico IV pirandelliano in una follia simulata.
Abile orchestratore di appassionanti meccanismi gialli, Simenon ne “L’uomo che guardava passare i treni” sceglie, a differenza di un normale romanzo poliziesco, di accentrare il mistero e la suspense non tanto nella trama (ridotta fin dai titoli a una banale serie di accadimenti, ben lontana dall’epica romantica dell’uomo solo contro tutti) bensì nel protagonista stesso. Chi è infatti Popinga? Un paranoico, un megalomane, un pazzo, un satiro, come sostiene a più riprese la stampa che si occupa del caso? Oppure un eroe anarchico e ribelle che lucidamente, a sangue freddo, decide di tagliare i ponti con la società per vivere senza più regole, freni inibitori e costrizioni sociali, come Popinga stesso pretenderebbe che gli fosse pubblicamente riconosciuto? A questo proposito, a me Popinga ha fatto spesso pensare a “Lo straniero” di Camus (in versione ovviamente più ironica e leggera), sia per il suo palese distacco dalla realtà (che a tratti potrebbe quasi essere scambiato per afasia) sia per la sproporzione tra i suoi atti e le sue reazioni emotive (come nel caso dell’omicidio di Pamela).
Il riferimento letterario più appropriato tra tutti è però senza dubbio “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello. Il fallimento clamoroso (ancorché venato di un canzonatorio senso di superiorità nei confronti delle persone “normali”) di Kees Popinga, costretto a scegliere tra l’alternativa se suicidarsi o recitare la parte del pazzo, è l’amara presa di coscienza che l’individuo è sempre costretto a soccombere di fronte a una società che, per espungere dal suo seno la scheggia impazzita rappresentata da quell’omino sostanzialmente innocuo, non esita a mettergli contemporaneamente contro (come in “M, il mostro di Dusseldorf” di Fritz Lang!) la polizia e la malavita, violando così il fair play “scacchistico” del protagonista. A ben vedere, il vero trionfo di Popinga, cui per converso avrebbe corrisposto lo “scacco matto” per l’avversario, l’astuto commissario Lucas, sarebbe stato il perfetto anonimato (e non già la celebrità, alla quale lui stesso sembra a tratti improvvidamente credere, scrivendo spavaldamente a giornali e polizia e amplificando in tal modo la risonanza mediatica del suo personaggio), ma, in un mondo che pretende di controllare tutto e tutti, ciò non è davvero possibile e gli aspiranti “signor nessuno”, si chiamino essi Mattia Pascal o Kees Popinga, sono alfine tristemente costretti allo smascheramento e all’eliminazione (sia essa in una prigione o in un manicomio).
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